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LA LEGGENDA DI FIORE
ROMANZO SPIRITUALE DI MARCELLO VENEZIANI

D. L’aver tirato di scherma? lo sterno pronunciato? un antenato domenicano? il Circolo Risorgimento? ….. Quanto c’è di autobiografico nella Leggenda di Fiore? nell’opera, per esempio, si scorgono netti, i colori della Puglia, seppur velati da una malinconica poeticità, sbaglio?

R. Nella leggenda di Fiore, soprattutto nei tratti dell’infanzia, ci sono inevitabili risvolti autobiografici, trasfigurati, che considero tuttavia irrilevanti ai fini dell’opera e del lettore. E mescolati a storie d’altri o di pura invenzione. Ma non uso Fiore per raccontare la mia vita, semmai uso la mia vita per raccontare Fiore. Del tutto trascurabili sono i dettagli autobiografici. Inevitabili anche le tracce dei miei luoghi d’origine; la Puglia c’è anche se non viene mai nominata, come nessun altro luogo.

D. Come nei Racconti di un pellegrino russo; nel Profeta, di Gibran Kahlil Gibran; ne L’Alchimista, di Paulo Coelho; ne La faccia verde, di Gustav Meyrink; nel Medicus, di Noah Gordon; nelle Memorie di un nano gnostico, di David Madsen e moltissime altre opere, possiamo affermare che pure la  sua Leggenda di Fiore  contempli la possibilità di un primo – primissimo – livello di lettura che allude alla cerca di se stessi (il platonico Mito di Er, il riconnettersi con il proprio daimon) condizione preliminare per qualsivoglia proseguo verso una effettiva realizzazione?

R. Ho inteso la leggenda di Fiore come un cammino di liberazione da se stessi e soprattutto dalla patologia dominante e pervasiva di sé, il narcisismo o l’egocentrismo. Fiore si libera gradualmente di sé, cerca la verità della vita, dell’essere e del mondo più che se stesso. Naturalmente ogni cammino spirituale è un cammino che arricchisce interiormente, ma la sua ricchezza avviene spogliandosi di sé.

D. Il sottotitolo scelto è sicuramente consono: per i continui rimandi a temi di natura spirituale, ma ciò potrebbe rendere l’opera di non facile fruizione per i lettori sprovvisti di sufficiente competenza ed interesse per i temi della mitologia, della religione, dell’esoterismo, concorda?

R. La leggenda di Fiore può essere letta a vari livelli: può essere un’amabile fiaba ricca dii incontri, avventure e sorprese; può essere un viaggio di conoscenza, di nostalgia e di riflessione; può essere un cammino di realizzazione spirituale. Sono disseminati riferimenti simbolici e richiami mitici; qualcuno magari potrà apprezzare la bellezza del paesaggio o dell’andatura, altri coglieranno questi riferimenti più nascosti. Come ogni pianta, c’è una radice, un tronco, una corteccia, i rami, i fiori e i frutti… ciascuno si soffermerà al livello che gli è più consono.

D. Pur contemplando la possibilità di differenti livelli di comprensione, è innegabile che il suo testo viene a porsi quale discrimine fra quei lettori che fanno propria una concezione materialistica dell’esistente e altri che tale visione rifiutano, per causalità variamente definibili: di natura karmica, metafisica, di predestinazione,… Differenti equazioni personali ( conducenti ad antitetiche “assunzioni di campo”) caratterizzate da sensibilità diverse, che  originano variegati livelli d’apprezzamento dell’opera, non crede?

R. E’ inevitabile. L’opera del resto reagisce all’impoverimento spirituale del nostro tempo ed invita a evadere dalla prigionia del presente. Si può leggere Fiore, lo ripeto, anche non condividendo questa visione; ma è evidente che presentandosi già come romanzo spirituale, ha una precisa avvertenza d’uso che chiarisce in partenza il senso e l’orientamento dell’opera. 

D. Nell’economia della storia narrata, l’amore ha un ruolo rilevantissimo, fino al punto di farne una forza in grado di contribuire al disvelamento del significato, ultimo, dell’umana esistenza?

R. Gli amori, nell’avventura di Fiore sono intensi ma brevi, benché fruttuosi. Sono stazioni di passaggio, stadi di conoscenza e di esperienza. Ma l’amore in sé è lo spirito della ricerca, la molla che muove al cammino, che cerca il punto di fusione. L’amore è un’ascesa dai corpi alle anime, dai paesaggi ai saperi; al suo massimo grado l’amore è amor divino, amore di verità e di sapienza, amore della luce. Gli amori sono per così dire i colori, l’amore è la luce. 

D. Sono nella leggenda di Fiore, com’è giusto aspettarsi trovare in ogni narrazione esoterica con la “E” maiuscola, riferimenti dottrinali e suggerimenti operativi. Si sentirebbe di evidenziarne alcuni, a beneficio di quei lettori che, percependo esser rimasti privi di qualsivoglia punto d’appoggio, desiderano trovare il loro personale centro di gravità permanente?

R. No, vorrei che rimanesse l’innocenza del racconto, il fluire magico della narrazione, il suo ritmo, la sua armonia. Il resto traspare in alcune allusioni ed è affidato nelle mani di chi legge. Ciascuno poi, se vorrà, troverà altra ispirazione secondo il suo grado, la sua esperienza, il suo rango di vita. E’ l’alchimia tra la pagina e il lettore che genera la chiave di lettura più consona. Nelle pagine si spargono segnali, messaggi, piste, tracce ma senza alcuna pretesa di costituire un percorso iniziatico e di presentarsi come maestri. 

D. Considerando esser lei, anche, storico, potrebbe ritenersi occasione mancata l’aver omesso qualsivoglia riferimento, pur minimo, a quella che è stata definita “la terza dimensione della storia”, quella sotterranea, invisibile, meta-storica? 

R. Non mi considero uno storico, anche se mi occupo talvolta di storia e più me ne occupavo in passato, soprattutto delle pagine più controverse. Questo viaggio è volutamente fuori dal tempo e dalla storia, dai suoi affanni e dalla sue polemiche; si dispiega in una dimensione mitica che potrà anche essere letta come un fiume carsico che percorre le profondità della storia. Ma senza la pretesa di esprimere una teoria metastorica. 

D. In considerazione: della sua conclamata passione politica, precedente produzione intellettuale, ben noto impegno civile, ritiene corretto considerare core del libro, la stigmatizzazione – teoria zoomorfica dell’umanità, denuncia del processo disgregativo del cattolicesimo, ancor più favorito dall’azione dell’attuale pontefice, ecc. – di questo nostro, triste, tempo attuale?

R. Non è la mia finalità principale ma sarei falso se negassi che la molla di questo libro, la molla che mi spinse a scriverlo e credo la molla che può spingere a leggerlo, è legata a un rifiuto, una delusione, una ribellione rispetto al tempo presente, ai suoi totem e i suoi tabù. D’altra parte la vicenda del Papa ha qualche precisa valenza allusiva al nostro oggi… Ma la stessa idea di prescindere da ogni riferimento storico, civile e temporale è una precisa scelta e, se vogliamo, una dichiarazione esplicita di rigetto della miseria presente.

D.  Negli anni’70, lei è stato il primo a “postulare” la valenza incapacitante della weltanschauung tradizionale. E’ lecito affermare che le vicissitudini esistenziali e le tribolazioni interiori di Fiore, per come da lei simbolicamente narrate, alludono al fallimento cui è destinato ogni percorso realizzativo che a quel particolare mito – appunto – incapacitante, abbia ad ispirarsi?

R.. Si può leggere in questo modo, e si possono trovare riscontri biografici, generazionali, storici che confermano quel disincanto. Ma alla fine credo che vi sia una scelta tra l’essenziale e il passeggero, il politico e l’esistenziale, ciò che resta rispetto a ciò che appartiene solo allo spirito del tempo. Se una molla iniziale può essere quella, il cammino che segue, procede in autonomia per altri sentieri, superando ogni memoria e rigetto. Quando intraprendi quel cammino tutto quel che aveva una connotazione d’impegno civile appare remoto, piccino, poco significativo e poco incisivo.

D. Alcuni dei suoi primissimi scritti giovanili apparvero su SOLSTITIUM, rivista che ebbe ad avvalersi dell’apporto di Autori della levatura di Pio Filippani Ronconi, Emilio Servadio e numerosi, validissimi, altri, che memoria conserva di quell’ambiente culturale, di quelle frequentazioni?

R. In realtà non ebbi frequentazioni assidue in quel mondo, anzi in quei mondi, spesso l’un contro l’altro armati; non ricordo di aver scritto nulla, o perlomeno nulla di significativo. Magari a volte li ho letti, ho trovato qualche consonanza, ho rispettato i loro percorsi ma ho seguito altre strade. Ho un luminoso ricordo di Filippani Ronconi e una positiva memoria di Servadio.  

D. L’ultima, prima di sentitamente ringraziarla per la disponibilità mostrata, riguarda un elemento, non secondario, della trama del suo caleidoscopico romanzo, ovvero, il mare: quello di Bisceglie? quello di Talamone? quello dell’Isola delle donne o, se preferisce, delle femmine? 

R. La bellezza del mare è proteiforme, è duttile e può essere il mare di Talamone come quello di Bisceglie, o quello mitico dell’Isola delle donne; comunque il mare mediterraneo. Ma la bellezza del mare è poi nella magia del ritorno, come le onde, la risacca, i viaggi, le maree… Amo il pensiero meridiano di Camus, le ispirazioni mediterranee di Valéry, i mari del sud...Il mare è la figurazione fluida del destino, è il rappresentante del cielo in terra… Ho costruito la mia vita sulla sponda del mare, leggo, scrivo e penso davanti al mare, ho scrutato nel mare cercandovi il fato, i ricordi e i presagi. Non so vivere senza quello sguardo che finge di perdersi nell’azzurro per ritrovarsi.  

ELLEEMME E L’INTERVISTATRICE, MARIA LAURA CONSOLI, TENGONO A RIBADIRE IL LORO APPREZZAMENTO PER LA DISPONIBILITA’ MOSTRATA DALL’AUTORE.

L'AUTORE
Marcello Veneziani
Giornalista, scrittore, filosofo
Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai.
Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani.
È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.
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L'OPERA
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L’avventura spirituale di Fiore, figura leggendaria, dalla nascita all’adolescenza, tra la natura e le scoperte dell’anima; poi la fuga da casa, i primi incontri e i primi pensieri; le tracce della religione d’infanzia rimaste anche d’adulto (come baciare il pane avanzato e sgranare il rosario). Il suo viaggio senza ritorno, dall’Isola delle donne al lungo cammino in Oriente, verso la Luce– la tigre cavalcata, gli incontri straordinari, tra cui un ex papa ritiratosi nella foresta – la visione del Fiore d’oro. La svolta della sua vita è segnata da un contagio che lo porta sul punto di morire: restituito alla vita, in un convento, Fiore decide di dedicarla a un compito e a una ricerca. Nomen omen, Fiore risale a Gioacchino da Fiore, l’eremita dei sette sigilli che annunciò l’avvento dell’età dello Spirito Santo: ebbe in custodia il suo libro segreto che si riteneva perduto. Comincia allora la sua vita nuova, tra digiuni di cibo e di parole, preghiera e alchimia; veste una tunica, un cappello a forma di cono, si ritira in un trullo. Viaggia nel futuro, con un caleidoscopio che è la sua sfera di cristallo, e nel passato, tramite un album di ricordi. Suona il salterio e naviga su un tappeto magico. Lungo il suo cammino dispensa versi, pensieri e precetti, trova seguaci ma se ne libera. Gli amori fugaci e la scoperta tardiva della paternità. Un romanzo spirituale, tra Zarathustra e Siddhartha, in tempi e luoghi indefiniti, dedicato alla vita e al pensiero di un asceta gioioso.
Ancora 1
IL TEATRO DI VRTTI OPERA
CONVERSAZIONE DI PIERPAOLO SERACANGELI CON FRANCESCO FRANCI

D: Quali sono state le prime opere che avete proposto al pubblico?

R: La prima, nel 1975, è stata "Maag", vale a dire atmosfera "magica", stato di equilibrio-squilibrio, stato di sottile "possibilità" differente, in cui l'accaduto e il potrebbe accadere si identificano. Come struttura scenica in quell'occasione è stato scelto il mito, la favola, la metafora, il fantastico come modo di essere, come maschera che di continuo sveli volti sempre differenti. Poi abbiamo portato sul palcoscenico "Alice crudele", nel 1977, con evidenti link tra il mondo del "Teatro della Crudeltà" e l'onirico mondo di Alice.

 

D: Qualche altra rappresentazione che ha connotato e avvalorato il vostro lavoro teatrale agli inizi?

R: "La Bella e la Bestia", del 1978, con riferimenti alle radici storiche popolari delle favole; "L'Opera dei Mutamenti", 1979: spezzoni di realtà in una ricerca di "tempo" non determinante, di "passato", di "già fatto" impossibile o illusorio. "Il giorno e la notte di Ludwig W",1980: una storia fantastica e non plausibile, una saga del passato/futuro (nel presente). Una saga fatta di poche immagini, azioni, storie, che riempiono però lo spazio-tempo fino in "fondo".

 

D: Il vostro impegno teatrale è il risultato di un incisivo e costante percorso iniziatico ed è divenuto, anno dopo anno, opera di perfezionamento spirituale, psicologico, culturale. Come ha accolto, il pubblico, le proposte che di volta in volta avete portato sul palcoscenico?

R:  Intanto aggiungerei  che Maag è stato un inizio per rompere il ghiaccio, ma non ci ha soddisfatto, però ci ha fatto capire che il Laboratorio doveva essere tale e che quindi bisognava lavorare seriamente e a fondo e così decidemmo  di preparare una nuova opera ed andare in scena quando ci rendevamo conto che era compiuta, senza limiti di tempo, e infatti ci volle un anno intero per prepararlo ed essere pronti per rappresentarlo. Va anche detto che la ricerca voleva basarsi su un preciso background culturale, così i nostri punti riferimento, molteplici, erano, il concetto di equilibrio tra  dionisiaco ed apollineo de La Nascita della Tragedia di Nietzsche; lo spirito del Teatro della Crudeltà di Artaud,  che tra l’altro ha caratterizzato   tutta l’avanguardia teatrale di quegli anni, tant’è  che il titolo fu Alice Crudele. Poi l’influsso  di Laing,  con L’Io Diviso,  e la fonte sociale della schizofrenia, per cui in scena le Alice erano molteplici; infine un piccolo libro di James Hillman, appena uscito, "Saggio su Pan", ci fece conoscere la psicologia postjunghiana, che ha poi sempre seguito  il nostro lavoro, e va anche citato "Le Radici storiche dei racconti di fate", di Vladimir  Propp.  Anche la musica di scena è stata sempre fondamentale  nella costruzione degli spettacoli; per Alice è stata la musica dionisiaca popolare, per cui gli attori in scena suonavano le launeddas sarde, la ciaramella abbruzzzese  o la tammura campana, e  una filastrocca popolare laziale era il canto. Possiamo dire che lo spettacolo ebbe un successo inaspettato, di pubblico e anche di critica, con articoli su tre colonne, questo ci ha un po’ drogato, per cui ritentammo l’operazione la stagione dopo con "La Bella e la Bestia", ma non fu la stessa cosa: capimmo che si era concluso un ciclo, e che bisognava cominciare da capo. Così abbiamo riavviato la ricerca su un nuovo stile, più freddo e astratto, Il primo risultato fu "L’Opera dei Mutamenti", visto da pochissime persone, nello scantinato del CIVIS casa del studente, dove era ubicato il laboratorio, ma il risultato era buono, eravamo riusciti nell’intento; un critico, Franco Cordelli, sempre attento alle novità sperimentali intitolò il suo pezzo  "Fulminanti immagini di silenziose figure" e in effetti racchiudeva tutto il breve spettacolo;  avevamo trovata la nuova efficace  chiave espressiva, Quindi abbiamo lavorato per creare uno spettacolo più completo da rappresentare in uno spazio ufficiale dell’avanguardia romana: "Il Giorno e la Notte di Ludwig W": stavolta il riferimento culturale era Wittgenstein,  e la sua sottile logica, lo spettacolo è risultato uno dei migliori della nostra produzione, anche qui con un pubblico che ha apprezzato l’astratta messinscena visiva con il nostro approccio alla musica minimalista (Terry Riley) che avrebbe poi caratterizzatole successive scelte musicali, fino all’esecuzione dal vivo delle sue musiche di Michael Nyman,  nello spettacolo "Fluens" in un'unica rappresentazione al Teatro Quirino di Roma. Questo è stato forse l’ultimo"grande" spettacolo che abbiamo realizzato, Poi ne verranno altri, ma con molta calma...

 

 

D: Il vostro impegno, sulla scena, si avvale di giustificate e ben studiate contaminazioni fra teatro, tecnologia, spettacolarità, moda, arti visive, performance ambientali ed altro. È stato difficile creare un "vostro pubblico", individuare un target idoneo ai vasti e non certo banali temi da voi trattati?

R: A dire il vero il pubblico ci ha sempre gratificato, ma forse sarebbe più esatto dire pubblici, perche il target mutava di volta in volta pur mantenendo un’ area di aficionados...

 

D: A proposito di "Fluens", vostra opera del 1988 avete scritto quanto segue.: «La realtà è quello che è e va "vista", vissuta, certamente non rappresentata. Questo è il nostro semplice (forse primitivo) teatro. Non rappresentiamo nulla, soltanto presentiamo dei materiali del nostro reale nel loro fluire. Della moda, della musica, delle azioni sportive, delle creazioni pittoriche ed altri materiali. Certamente lo spazio teatrale, ci permette (o sottilmente ci costringe?) di guardare di traverso questi materiali.
Una dimensione elastica da tirare di qua e di là. I tempi si allungano o si contraggono innaturalmente».

Queste affermazioni, in fondo, connotano gran parte della vostra attività scenica. Un impegno culturale, il vostro, che richiede profonda interazione e intesa fra sceneggiatori, regia, scenografia. Vi ritenete soddisfatti circa gli innumerevoli messaggi e stimoli, mai banali, che avete presentato al pubblico?

R:  Il teatro, quando è tale , è uno spazio magico che permette oltre a salti di tempo, anche  di mischiare le carte, che poi, sono già mischiate di per sé, bisogna solo  calarle sul tavolo da gioco, le arti visive, la musica,  la spettacolarità e la bellezza insite nello sport o nella moda, l’arte nascosta nell’alta tecnologia ("La Gaia Scienza" di Nietzsche), noi abbiamo soltanto mischiato le carte  e gettate sulla scena, e ci pare che il gioco sia spesso riuscito bene, per fortuna...

 

 

 

D: Sappiano bene in quali difficoltà si trovi, in Italia, il mondo del teatro. A voi come è andata, per quanto riguarda rapporti con Enti, istituzioni, teatri, circoli culturali: ostacoli, disinteresse e scetticismo, oppure collaborazione, incoraggiamenti, aiuti?

R:Tasto dolente questo, Il Ministero dello spettacolo ci ha sempre sostenuto, permettendoci di produrre i vari spettacoli, fino a quando ha cambiato le regole del gioco e queste non erano adatte al nostro modo di fare teatro, per cui a un certo punto abbiamo lasciato perdere il Ministero e i suoi possibili contributi. Va anche detto che  quell’epoca  dell’avanguardia romana era caratterizzata da una serie alle quali, di lobby, per nostra incapacità relazionale eravamo estranei: la ferrea lobby di Giuseppe Bertolucci, il Beat 72, la lobby dei barbiani (seguaci di Eugenio Barba), quella dei docenti  universitari, dei vari DAMS,  l’AGIS, dei vari Assessorati alla Cultura, etc, se non stavi in uno di questi ghetti non lavoravi: niente partecipazione a festival, niente inviti dai teatri d’avanguardia nazionali, per cui si era destinati all’asfissia, e ciò era un obiettivo di tali lobby, per sfoltire il mercato, Questo ci ha fermato per parecchi anni.
 

 

D: Cosa può dirci a proposito delle connessioni, dei riferimenti, dell’ispirazione derivanti e correlate alle attività e finalità del Centro culturale e diffusione editoriale "Diapason"e del "Gruppo dei Dioscuri",ai quali la vostra Compagnia è stata legata in vario modo?

R: L’idea di fare teatro è nata  nel momento clou delle attività di Diapason,  che volevano mettere in pratica lo spirito del Gruppo dei Dioscuri *, ovviamente ciò ha positivamente condizionato le scelte culturali descritte sopra,  Tutto è un fiume che scorre (Eraclito).

Centrale Museale Montemartini
UN CONTRIBUTO DI FRANCESCO FRANCI
SU BENEDETTO SIMONELLI**

Performance poetica di Benedetto Simonelli

alle Scuderie Estensi, Tivoli

** A Benedetto Simonelli, artista multiforme e provocatorio, oltre che ricercatore spirituale sui generis, Ellemme dedicherà uno speciale.

* Iniziamo la disamina annunciata nella home, a riguardo della prima realtà considerata, il Gruppo dei Dioscuri, evidenziando la differenza, seppure lieve, esistente fra il nostro giudizio (complessivamente positivo, escludendo l’involutivo periodo terminale – “dei galletti neri” – che altri, più qualificati di noi, hanno giustamente stigmatizzato) e quello, forse ingeneroso, del professore Renato del Ponte. Si è ritenuto dover procedere in tal senso anche a ragione dell’autorevolezza riconosciuta al noto studioso, ligure, del pensiero evoliano. L’occasione risulta appropriata per presentare ai nostri lettori più giovani (che poco o nulla sanno delle vicende che hanno caratterizzato l’ambiente tradizionalista evoliano) un contributo chiarificatore di Piero Fenili e un interessante documento a firma Franco Mazzi; entrambi già apparsi sul n.8 di POLITICA ROMANA.

ALL'ORIGINE DEL CASO "DIOSCURI"
RICORDO DI UNO SCIAMANO DELLA MAREMMA TOSCANA:
BREVE PROFILO DI FRANCESCO MAZZI

Avevo appreso con vivo compiacimento che Gennaro D'Uva era intenzionato a ricordare su "La Cittadella" Sebastiano Recupero, degna figura di ghibellino italico, che tanto si era adoperato per riannodare i fili del tradizionalismo italiano con la tradizione federiciano-augustea, capace ancora di proiettare la sua ombra fausta sul divenire tormentato della Saturnia tellus. E così è stato. Leggo infatti sul numero 31-32 (Anno IV, nuova serie, 2008) di quella rivista la bella commemorazione che di Recupero hanno scritto Armando Lopes e Gennaro D'Uva, accompagnata da una sapiente rievocazione dell'ambiente culturale nel quale fiori il Nostro. La cosa mi ha fatto doppiamente piacere perché, per un convergere di circostanze abbastanza singolari, un genere di congiuntura al quale sono solito prestare una vigile attenzione, mi ero risolto da tempo a consacrare qualche pagina di "Politica Romana" alla rievocazione di un personaggio che svolse un ruolo di primissimo piano nella controversa ma non banale vicenda del c.d. Gruppo dei Dioscuri, attivo a partire dalla fine degli anni Sessanta. Il Gruppo dei Dioscuri è generalmente conosciuto, all'esterno, attraverso i quattro fascicoli con i quali venne lanciato quello che riteneva essere il suo particolare "messaggio". Meno nota è la sua intenzione di ricollegarsi direttamente a quello che era stato, quarant'anni prima (ma quanti sconvolgimenti erano avvenuti in un così breve lasso di tempo!) il celeberrimo Gruppo di Ur, quasi a sancire un'operante ripresa di continuità tra i due "Gruppi": una pretesa che sicuramente non poteva rientrare nello schema guénoniano relativo alla regolarità della trasmissione iniziatica. Malgrado ciò, il Gruppo dei Dioscuri si ritenne sufficientemente legittimato ad agire per due ordini di considerazioni, consistenti: 

1) nella natura stessa del Gruppo di Ur, assunto come modello di riferimento, che mai, nella sua struttura intelligentemente informale, aveva sostenuto di trarre la propria legittimità da una qualsiasi "regolare" filiazione (1); 

2) nella possibilità, rivelata dal misterioso messaggio di un non meno misterioso Ekatlos, trasmesso al direttore della rivista KRUR (Julius Evola), di ricorrere ad un intervento salvifico dei Numi tutelari di Roma e dell'Italia quando circostanze impellenti di salute pubblica lo richiedessero. Se si accostano questi due elementi fondanti risulta chiaro come il nomen "Gruppo dei Dioscuri" fosse del tutto pertinente a quella struttura volutamente esoterica in via di costituirsi. Si trattava di una combinazione di diversi fattori, suggerita ad alcuni ambienti tradizionalisti romanamente intonati dallo Zeitgeist dell'epoca. Ma, com'è noto, tra il dire ed il fare... Colui che volle sbloccare operativamente la situazione, mettendosi in gioco in prima persona, fu appunto l'insolito personaggio al cui profilo esoterico ed umano dedico questo mio succinto ricordo. Francesco (detto Franco) Mazzi (1936-2000) ebbe la vita segnata da quella che reputava e non a torto, dal suo punto di vista, essere una pesante ingiustizia. Affermava infatti, e non mi risulta sia mai stato smentito, che il suo padre naturale era diverso da quello anagrafico e che questo inconveniente lo aveva privato del diritto di portare un cognome di superiore censo ed importanza. 

La voce del sangue conferiva al suo spirito una dimensione che non si riconosceva nelle rispettabili ma modeste coordinate familiari nelle quali il destino lo aveva collocato. Ignoro perché Franco non abbia rivendicato il suo status di figlio naturale. Forse a quell'epoca la scienza non era ancora in grado di verificare la fondatezza di un tal genere di pretese o forse, quando lo divenne, la cosa non aveva più interesse per lui, che aveva ormai alle spalle la parte più importante della sua vicenda terrena. Sta comunque di fatto che Mazzi annoverava, tra la figure storiche che più amava, quel Lawrence d'Arabia al quale la vita aveva arrecato un torto analogo. 

Come se non bastasse, sfortuna volle che, per un complesso di circostanze che non ritenne mai di dover chiarire, anche la sua educazione subisse una incresciosa battuta di arresto, non avendo egli terminato gli studi liceali intrapresi. 

Riferisco questi cenni biografici così come Franco me li espose, senza essermi mai curato di verificarli, perché contribuiscono a spiegare una certa nota di amarezza e di risentimento presente nel suo carattere, che ne offuscava la solarità. Le impietose esigenze del vivere quotidiano lo videro dunque impegnato in attività lavorative socialmente ed economicamente ben al di sotto del livello al quale le sue reali possibilità potevano aspirare. 

Non ho avuto esitazioni ad evocare l'elemento “solare”, perché esso filtrava dalla sua personalità anche con irresistibili accessi di creativa ilarità (2) ogni qualvolta le sue nuvole "karmiche" lo permettevano. Queste consistevano in frustrazioni irrisolte che lo rendevano vulnerabile, esponendolo a crisi di vario genere, per lo più di carattere emotivo. Una sorta di tallone d'Achille che egli si trascinò sempre dietro. Era tipico del suo linguaggio il dividere gli uomini, con cui veniva in contatto, nelle due categorie degli "accesi", o suscettibili di divenirlo, e degli "spenti", che poi andavano a costituire le "due razze" nelle quali egli suddivideva l'umanità od almeno quella parte di essa cui rivolgeva il suo interesse. 

Di occhio ceruleo e di capello biondo, attirò la benevolenza di Evola quando, andato a trovarlo in divisa, mentre stava prestando il servizio di leva, gli si presentò sfoggiando un perfetto saluto militare. Evola lo aveva in simpatia perché apprezzava lo spessore interiore del personaggio, ma approfittava della sua natura giocosa per scherzare a sua volta. 

Di questo genere di rapporto rimase emblematica una telefonata che Mazzi fece ad Evola, il quale dall'altro capo della linea gli chiese senza mezzi termini: "Ah, lei è Mazzi! Non si è ancora sparato?". E Mazzi, di rimando, in perfetto spirito toscanaccio: "Ancora no, sto aspettando l'esempio del Maestro". Immagino che Evola abbia riso di cuore a quella risposta. 

Credo che Evola sia stato fino alla fine il principale modello di riferimento di Maz-zi, perché notai che, in caso di dubbio, si allineava alle posizioni del Filosofo, sempre però in modo originale, libero e creativo, senza alcunchè di quel supino e tetro conformismo che rende poco simpatica una parte degli evoliani, chiaramente "lunarizzati" dalla potente magia evoliana della parola e quindi insofferenti di ogni approfondimento critico del pensiero del maestro. 

Molto importante nella formazione di Mazzi fu anche il libro Il mondo magico di Ernesto De Martino, l'unico libro che ritenne di raccomandarmi e di donarmi. Franco non era un intellettuale nel senso corrente, libresco del termine, ma possedeva un innato intuito che gli permetteva di afferrare fulmineamente, all'interno di un libro o di una situazione, quanto gli sembrava veramente utile e significativo. 

Se io dovessi riassumere in una frase il tratto più caratterizzante della personalità di Mazzi, che lo rendeva davvero discepolo fedele del migliore Evola, conierei l'espressione "spietrificazione della realtà". Per lui la realtà esteriore, in apparenza così rigida e pesante, era invece fluida e quindi modificabile, come è ritenuta essere, ad esempio, nel Buddhismo Hua-Yen e nell'idealismo magico di Evola.

Ricordo che un giorno in cui lo accompagnavo in uno dei suoi viaggi di lavoro, mi additò un grande masso che aveva una qualche rassomiglianza con un animale: "vedi", mi disse, "questo masso in epoca antichissima è stato sbozzato da un pastore con il suono del suo flauto ma, mentre questi si accingeva a finire di modellarlo, venne interrotto per una qualche ragione e lasciò la sua opera incompiuta". Per la naturalezza con cui Mazzi me lo disse, oltre che per i miei personali convincimenti, non trovai alcunché di inverosimile nella sua affermazione. 

Si comprende come una persona con tale intensa vocazione sciamanica fosse in grado di comunicare la sua energia creativa al gruppo di persone di varia estrazione che aveva raccolto intorno a sé. Ed infatti il Gruppo dei Dioscuri, nella sua fase ascendente fu davvero in grado, per coloro che accettano una terminologia esoterica, di muovere la "corrente astrale" oppure, per chi rifiuta tale dimensione magica, di spargere intorno a sé una sottile atmosfera di entusiasmo. 

Mazzi era ben consapevole del fatto che il clima rivoluzionario del '68 contribuiva a fornire energia alla sua dinamo ed era intenzionato ad approfittarne, essendosi già accorto per primo e con notevole anticipo, fin dal 1964, che un importante rivolgimento si andava preparando, tanto che in omaggio alla sua amata Maremma ed al fiume Ombrone che l'attraversa, era solito datare da tale anno quella che definiva per scherzo "l'Era ombronica". 

Sorvolo sui fenomeni involutivi che caratterizzarono il seguito della vita del Gruppo dei Dioscuri, innescati dal surplus di energia che si era venuta sviluppando e che Mazzi non era più in condizioni di governare, a causa dei cedimenti cui lo esponeva il predetto tallone d'Achille. Sta di fatto che certi comportamenti del Mazzi provocarono gravi spaccature tra gli altri componenti del gruppo, composto di elementi di notevole livello e serietà ed in parte pronti a non tollerare ed a censurare severamente, sotto il profilo etico, le défaillances del "capo-catena". 

A ben vedere, si trattava di un genere di difficoltà ricorrenti nei più svariati tipi di raggruppamenti esoterici, massimamente in quelli con una spiccata vocazione magica, come lo era già stato in modo eminente il Gruppo di Ur. È istruttivo ricordare che, delle tensioni insorte all'interno di questo Gruppo è rimasta emblematica l'infausta rottura tra Evola e Reghini. È opportuno rammentare anche che ogni catena è debole come il più debole dei suoi anelli. E tale può essere anche l'anello apparentemente più forte, se nasconde in sé incrinature che lo predispongono alla rottura. A Mazzi non mancava l'audacia nelle evocazioni, che però si traduceva talvolta in temerarietà, come attestano certe sue scorribande semispiritiche notturne in prossimità di ingressi della Roma sotterranea. L'intuizione circa l'esistenza di una ieratica Roma ipogea era in parte giusta, come dimostrano gli studi di autori magistrali della Tradizione italica, quali Domenico Bocchini e Giustiniano Lebano, che erano in possesso delle chiavi della conoscenza iniziatica, che sola può proteggere contro ogni contatto con le presenze cattive (larvae), "aprendo" soltanto alle presenze luminose e benigne (lares). 

In genere si può dire che tutte le forme che hanno veramente concluso il loro ciclo esistenziale possono assumere un consistenza larvale se rianimate imprudentemente ed artificiosamente, cosa che invece tentano ancor oggi sconsideratamente di fare taluni imprudenti anche se volenterosi celebranti neopagani, incuranti del significato della fossa (mundus), che la rende quasi porta degli Dei tristi ed inferi (deorum tristium atqiie inferum quasi ianua: Varrone in Macr. Sat. 1, 16, 18). Una porta che, tranne eccezioni e circostanze rigorosamente previste, deve rimanere ben chiusa. 

Franco non ritenne di coltivare l'incontro con la Tradizione ermetica italica che possiede il necessario sapere e che egli aveva iniziato a conoscere, come attesta una delle lettere, venute inaspettatamente alla superficie nella mia cantina, che egli mi scrisse e che riproduco, dalla quale risulta il suo interesse ma altresì l'incomprensione nei confronti di Giuliano Kremmerz, il cui preteso "sfarfalleggiare" mercuriale non è un difetto, come sembrava al Mazzi, avendo in realtà come scopo, oltre che di aguzzare l'intuito del ricercatore, anche quello di evitare che del suo insegnamento si tentasse di fare un sistema ingessato di nozioni e di concetti sui quali discutere, dibattere e filosofare, con grande soddisfazione degli "spenti", per usare il linguaggio di Mazzi.

Non pretendo, con queste brevi note, di avere fornito sulla figura di Franco Mazzi nulla di più di alcune suggestioni che possano permettere di intravederne il profilo animico ed umano, che tuttavia si precisa ancor meglio se si pone attenzione alle modalità del suo decesso, cosi come sarebbero state riferite da chi vi fu presente. Secondo tale testimonianza, che trasmetto come mi è stata riportata di seconda mano, ma non per questo priva di significato, giunto l'istante del suo trapasso, Franco si coprì il capo con un lembo del lenzuolo e si girò verso il muro, concludendo con romana dignità la sua vicenda terrena. 

Il mondo della destra deve gratitudine a questo discusso personaggio per il contributo decisivo da lui fornito, assumendone in prima persona il rischio, al riaccendersi, innanzitutto nell'interiorità delle persone, dell'entusiasmo per un risveglio spirituale e culturale capace di sottrarsi ai soffocanti circuiti nei quali il piatto conformismo della politica consociativa catto-marxista confidava di poter continuare a rinserrare la vita italiana. Dimenticando o meglio ignorando che, come riteneva Arturo Reghini, il fuoco di Vesta, ignis Romae, ignis Amoris, si perpetua attraverso i secoli nel nostro Paese e vana è l'illusione di poterlo estinguere. 

 

Piero Fenili

 

 

NOTE:

 

(1) Mark J. Sedgwick, nella sua imponente ricerca sul "tradizionalismo e la storia intellettuale segreta del XX secolo", intitolata Contre le monde moderne, Dervy, Paris, 2008 (Ediz. originale in lingua inglese, Against the Modern World, Oxford University Press, Inc., 2004) scrive (traduco dall'edizione francese): "Un piccolo gruppo all'interno di Ordine Nuovo perseguiva anche gli originari interessi di Evola, la magia cerimoniale cd il ncopaganesimo romano, creando a Roma, verso la fine degli anni '60 un gruppo: I Dioscuri (dal greco Dioskouroi, “i figli di Zeus”, p. 234). Queste indicazioni richiedono qualche precisazione, per le quali ci affidiamo al noto studioso austriaco Hans Thomas Hakl, che nel suo ottimo scritto Das Nettheidentitin der roemisch-italischen Tradition: von derAntike in die Gegenwart ("Il neopaganesimo della Tradizione romano-italica: dall’antichità all’attualità), che si legge in Der andere Glaube ("L'altra fede", Ergon Verlag, Wucrzburg, 2009), informa con maggiore esattezza che il Gruppo dei Dioscuri si formò "ai margini" (am Rande) [e quindi non all'interno] di Ordine Nuovo, relazionandosi con Roma quale centro sacrale ed interessandosi ad esercizi e rituali magici (p. 63), intesi nel senso del Gruppo di Ur (p. 63, corsivo mio). La descrizione di Hakl è quindi, anche per l'aspetto magico-operativo, più conforme a realtà di quella di Sedgwick, considerato che Evola, come è noto, nutriva precise riserve nei confronti della "magia cerimoniale" comunemente intesa.

 

(2) Non si dimentichi che nella teologia imperiale romana, la hilaritas era una delle connotazioni del Princeps. Ma questa sembra una tarda eco di un'era più felice, in cui il kali yuga non aveva ancora accentuato la sua stretta. Una sera, a Roma, davanti ad un'edicola del Centro, io e Mazzi fummo presi da un accesso di ilarità, non ricordo perché. Ricordo invece che l'edicolante ci inviò torve occhiate di sospetto e di biasimo, come se avessimo infranto l'intoccabile tabù della tristitia. Anche Mazzi se ne accorse e me lo disse.Oggi la regola del risus abundat in ore stultorum non sembra purtroppo tollerare più eccezioni.

A breve uno speciale sul Gruppo dei Dioscuri.

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