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La Via del Biasimo

di Demetrio Giordani

 

Quando lo Shaykh Abû ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî (m.1021 d.C.) scrisse la sua epistola sui Malâmatî (Risâla al-Malâmatîyya) era già passato un secolo e mezzo dall’apparizione, in una delle principali città del Khurâsân, la regione nord-orientale della Persia ai confini dell’Afghanistân, di quel gruppo di asceti che si era distinto da subito per la pratica di una via spirituale dalle caratteristiche estremamente rigorose, “implacabili”, direbbe oggi qualcuno, a cui fu dato il nome di “Via del Biasimo”.

L’attività dei primi Malâmatî iniziò infatti nella città persiana di Nîshâpûr tra il IX e il X secolo d.C., alcuni dicono come reazione all’ambiente religioso del tempo e alle pratiche ascetiche in voga in alcuni ambienti sufi di quella città. Durante questo periodo Nîshâpûr era posta al centro di un crocevia di strade che la collegavano, da un lato, alle principali città del mondo islamico di quel tempo, Rayy e Baghdâd, e dall’altro a Mashhad, Samarcanda, Bukhârâ, all’Asia Centrale e all’India, ed era una città ricca e variamente popolata.

Il gruppo originario dei Malâmatî si costituì tra gli artigiani della città. Le notizie più importanti su di esso ci pervengono attraverso Abû ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî, che era stato tra i pochi a ricevere oralmente, da un numero imprecisato di appartenenti alla terza generazione di Malâmatî, informazioni sulla vita e le sentenze dei fondatori del gruppo e sui loro discepoli. Tra questi informatori, una trentina di personaggi circa [1], fa spicco chiaramente il nome del nonno di Sulamî, Abû ‘Amr Ismâ‘îl b. Nujayd (m. 977 d.C.), che faceva parte del gruppo di quelli che mettevano in pratica il principio malâmatî della “dissimulazione dell’esperienza interiore” (talbîs al-hâl) [2].

I primi Malâmatî di Nîshâpûr si riunirono intorno alla figura di Hamdûn al-Qassâr (m.884 d.C.), che secondo Sulamî è stato il vero fondatore del movimento [3] e che forse è il rappresentante della sua tendenza più autentica. Anche se non ha lasciato nessun’opera scritta, si tramandano alcuni dei suoi detti più significativi. Diceva: “La conoscenza che Iddio ha di te è migliore di quella che hanno gli uomini” (bâyad ke tâ ‘ilm-i Haqq – ta‘âlâ – be-to nîkûtar az ân bâshad ke ‘ilm-i khalq) [4].

Hamdûn sosteneva che era caratteristico della natura dell’essere umano preoccuparsi della popolarità mondana più che del puro compiacimento divino, e che questo era il velo più grande che si interponeva tra Iddio e l’uomo devoto. Chi si preoccupa del giudizio degli uomini – diceva – evita di agire in modo riprovevole solo per non attirare su di sé il biasimo; mentre chi si preoccupa del giudizio di Dio non tiene conto di quello che dicono gli uomini [5]. L’evitare di diventare famosi a causa della propria pietà religiosa, e quindi il pericolo concomitante dell’ipocrisia (riyâ’), rendeva indispensabile per i Malâmatî mascherare i loro atti di culto supererogatori: il compiacere gli uomini e compiacere Iddio per loro erano infatti inconciliabili e opposti obiettivi. Il Malâmatî doveva in primo luogo cercare di non discutere con la gente per quello che essi dicevano di lui, né rammaricarsi di essere criticato o disprezzato, ma anzi fare di tutto per attirare il biasimo della gente, senza che tale azione fosse in sé un peccato grave o un’offesa, ma solo un espediente per essere respinto.

L’enfasi sulla devozione interiore e segreta portò i Malâmatî a respingere deliberatamente una qualsiasi forma di abito che li distinguesse, ma anche le riunioni di samâ‘ [6], e perfino il dhikr vocale [7], in quanto forma esemplare e pubblica di devozione esteriore.

La voglia di ricercare la considerazione nell’opinione altrui e la compiaciuta stima di se stessi, avevano come antidoto sperimentato l’assoluta sincerità (ikhlâs), che i Malâmatî adottavano per smascherare in modo spietato i trucchi dell’anima inferiore (nafs). Dhû-l-Nûn l’egiziano, uno dei primi asceti cui è stata attribuita sempre una spiccata tendenza malâmatî, aveva detto: “La nafs ha un rosario e un Corano nella mano destra, una scimitarra e un pugnale nella manica” [8].

Il concetto di biasimo (malâma) trae la sua origine sostanzialmente da un passaggio coranico in cui viene menzionata “l’anima che biasima se stessa” (al-nafs al-lawwâma) (Cor. 75: 2) e che ritroviamo anche nel versetto della “Sura della Mensa”:

“Iddio susciterà della gente (qawm) che Lui amerà e che Lo amerà, umile con i credenti e fiera con i miscredenti, che lotterà per la Causa di Dio e che non teme il biasimo di nessun biasimatore” (Cor. 5: 54).

L’espressione al-nafs al-lawwâma indica un grado intermedio nella progressione dell’anima umana verso il suo perfezionamento, essendo all’inizio nient’altro che l’“anima che istiga al male” (al-nafs al-ammâra bi-l-sû’), che deve diventare “anima pacificata” (al-nafs al-mutma’inna) al termine di questo progresso. Il senso del biasimo allora, nella prospettiva del perfezionamento propria dei Malâmatî, era sia l’esporre se stessi al biasimo degli altri, ma soprattutto il biasimare quella parte della propria anima, “che istiga al male”, impedendole di ricavare qualsiasi soddisfazione dalle cose di questo mondo.

Nella sua opera sulla Malâmatîyya Sulamî riporta le parole di Muhammad b. Mûsâ al-Wâsitî:

“Guardatevi dall’anima in ogni stato; è meglio che arriviate a sottometterla al punto di salutare chi vi risponde di malagrazia e non farlo con chi risponde con gentilezza, non frequentare chi mostra piacere in vostra compagnia, propendendo invece per la frequentazione di chi vi disprezza, chiedere a chi vi rifiuta e non a chi vi dà soddisfazioni, rivolgervi a chi si allontana e allontanarsi da chi si rivolge a voi, fare doni a chi non vi ama e non a chi vi ama, alloggiare presso chi vi trova sgradevole e non alloggiare presso chi vi desidera, unirvi a chi vi detesta e non unirvi a chi vi vuole bene, mangiare con chi vi è antipatico e non mangiare con chi desiderate, viaggiare quando desiderate restare e stare fermi quando desiderate viaggiare” [9].

Un altro importante personaggio appartenente al nucleo originale dei primi Malâmatî di Nîshâpûr era Abû Hafs al-Haddâd (m. 874 d.C.), originario di Kordâbâdh, un sobborgo alle porte di Nîshâpûr [10]. Anche da lui non sono pervenuti scritti di sorta, ma una serie innumerevoli di detti tra cui: “Da quando ho conosciuto Allâh, nel mio cuore non è più entrato né il vero né il falso” (mâ dakhala qalbî haqq wa lâ bâtil mundhu ‘araftu Allâh) [11].

Si racconta di lui che, mentre era seduto nella sua bottega di fabbro a Nîshâpûr, intento ad ascoltare un vecchio cieco che recitava il Corano nel bazar, divenne così assorto nell’ascolto, che mise la mano nella fornace e tirò fuori un pezzo di ferro incandescente dal fuoco, senza usare le tenaglie. Vedendo tutto ciò il suo apprendista svenne [12].

Abû Hafs al-Haddâd fu discepolo di Hamdûn ed è a tutti gli effetti tra i fondatori del movimento malâmatî e nonostante questo si fa risalire a lui una prima, precisa definizione della “virtù cavalleresca” (Futuwwa). Si racconta che un giorno, quando Junayd di Baghdâd [13] era riunito insieme ad altri Sufi del suo gruppo, chiese a Abû Hafs, che era andato a visitarlo, cosa fosse la Futuwwa, questi lo invitò a darne lui stesso una definizione, allora Junayd disse: “Per me la Futuwwa consiste nell’abolire la visione (dell’ego) e a rompere tutti i legami (di considerazione sociale)”. “Quello che dici è molto bello”, rispose Abû Hafs, ma per me la Futuwwa invece consiste nell’agire con giustizia senza aspettarsi di essere trattati con giustizia”. (A questa risposta) Junayd disse “Alzatevi in piedi (in onore del) nostro compagno! Abû Hafs ha superato (nella Futuwwa) Adamo e tutta la sua discendenza!” [14]

Una stretta relazione sembra esserci stata tra i primi Malâmatî e i membri della Futuwwa, gli artigiani membri di gruppi professionali ristretti (asnâf), i quali, oltre ad possedere i requisiti e le competenze necessarie del mestiere, erano vincolati da un codice di norme etiche e iniziatiche che regolava la loro vita e il loro lavoro. Ciò fa supporre che in qualche modo i Malâmatî volessero mascherare la loro via spirituale sotto l’appartenenza ad un’organizzazione di mestiere come la Futuwwa; come loro i Malâmatî vestivano infatti la comune veste del bazar, respingevano la rinuncia al lavoro praticata da alcuni Sufi ed esercitavano tutti un mestiere, come lo rivelano alcuni dei loro soprannomi: al-Haddâd (il fabbro), al-Qassâr (il lavandaio), al-Hajjâm (il salassatore), al- Khayyât (il sarto) ecc.. I Malâmatî avevano in comune con i Fityân, i “giovani” membri alla Futuwwa, il principio e la pratica dell’îthâr, il sacrificio altruistico, che aveva come fondamento principale il versetto: “E preferiscono quelli a se stessi anche se afflitti da indigenza” (Cor. 59: 9). A proposito di questo versetto Hujwîrî narra un aneddoto che esemplifica un punto di vista malâmatî sull’îthâr:

Chiesi a Ahmad Hammâdî di Sarakhs quale era stato l’inizio della sua conversione, rispose: “Una volta mi spinsi fuori da Sarakhs, portai i miei cammelli nel deserto e rimasi lì per un periodo considerevole. Desideravo sempre rimanere affamato e donavo la mia porzione di cibo agli altri, e le parole di Dio: ‘E preferiscono quelli a se stessi anche se afflitti da indigenza’ (Cor. 59: 9) erano continuamente presenti nella mia mente ed io credevo fermamente nelle dottrine dei Sufi. Un giorno un leone affamato uscì fuori dal deserto, uccise uno dei miei cammelli, poi si ritirò su di un terreno elevato e ruggì. Tutte le bestie selvagge lì intorno, sentendolo ruggire, si riunirono intorno a lui. Fece a pezzi il cammello poi tornò sul terreno elevato senza aver mangiato nulla. Le altre fiere – volpi, sciacalli, lupi, ecc. – iniziarono a mangiare e il leone attese finché non andarono via. Allora si avvicinò per addentare un boccone, ma vedendo in lontananza una volpe zoppa, si ritirò fino a che la nuova venuta mangiò e fu sazia. Dopodiché avanzò e mangiò un boccone. Quando stava per andarsene mi parlò, poiché avevo osservato da lontano, e disse con un linguaggio puro ed elegante: ‘O Ahmad, dare la preferenza ad altri in fatto di cibo è un’azione che si addice ai cani: gli uomini danno la loro anima e la loro vita’ (yâ Ahmad, îthâr bar loqme kâr-i sagân ast, mardân jân va zendegânî îthâr konand). Quando ciò mi fu chiaro rinunciai a tutte le faccende mondane e questo fu l’inizio della mia conversione”[15].

 

La vita e le opere dello Shaykh Abû ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî

 

Nacque a Nîshâpûr nel 937 e morì nella stessa città nel 1021 d.C. Fu allevato in una famiglia d’alto rango di stirpe araba, discendente dalla tribù degli Azd, da parte di suo padre, e dei Sulaym da parte di sua madre. Il padre, trasferitosi alla Mecca, affidò il giovane al nonno materno Abû ‘Amr Ismâ‘îl b. Nujayd, un eminente studioso di Hadîth di scuola shâfî‘ita, e, come è stato già segnalato, discepolo di Abû ‘Uthmân al-Hirî. Sulamî ricevette la formazione giuridica da un amico di suo nonno, il giudice hanafita Muhammad b. Sulaymân al-Su‘lûkî (m. 980 d.C.) che dopo averlo istruito gli conferì un diploma (ijâza) e l’autorizzazione all’insegnamento. Fu iniziato al Sufismo e ricevette poi la veste dei sufi (khirqa) da Abû al-Qâsim al-Nasrâbâdhî (m. 978 d.C.), il quale l’aveva ricevuta a sua volta da Abû Bakr al-Shîblî qualche tempo prima a Baghdâd.

Come molti studiosi di Hadîth, Sulamî viaggiò moltissimo nel Khorâsân e in ‘Irâq in cerca di conoscenza; visitò Merv e Baghdâd, e i suoi viaggi culminarono con il pellegrinaggio ai luoghi santi che intraprese nel 977 in compagnia di Nasrâbâdhî. Viaggiò in seguito anche nel Hijâz. Quando tornò a Nîshâpûr suo nonno era morto e gli aveva lasciato in eredità la sua grande biblioteca; egli la trasformò in una zawiya situata nel quartiere dove viveva. Nei successivi quaranta anni egli rimase nella sua città, forse spostandosi per brevi periodi a Baghdâd. Negli ultimi anni della sua vita divenne noto in tutto il Khurâsân come dotto giurista shâfî‘ita e fu rispettato come maestro sufi, autore di manuali e compilatore di agiografie.

Sulamî è stato uno scrittore molto prolifico, Muhammad b. ‘Alî al-Khashshâb (m. 1064 d.C.), il suo biografo principale, compose una lunga lista delle sue opere che ammontano a più di un centinaio, scritte in un periodo di circa cinquanta anni, che va dal 970 alla sua morte. Alcune di queste opere sono ancora dei manoscritti, altre invece sono state recentemente stampate, alcune infine tradotte in lingue occidentali e possono essere riunite in tre categorie principali: biografie di grandi Sufi, commentari del Corano, trattati sulla tradizione del Sufismo in forma di manuali di istruzione ai discepoli [16].

Oltre ad essere stato un autore dalla produzione originale, Sulamî è stato anche e soprattutto un compilatore, un raccoglitore di aneddoti e di sentenze di grandi Sufi; raccolse tutto questo materiale durante i suoi viaggi: a Merv, Baghdâd, Mecca, oltre che a Nîshâpûr. Talmente importante e minuziosa è stata la sua opera, per la trasmissione della tradizione orale del Sufismo dei primi secoli, che spesso le sentenze da lui riportate riappaiono, anche a notevole distanza di tempo, nelle opere di autori importanti come Abû al-Qâsim al-Qushayrî che fu il suo discepolo principale, Rûzbehân Baqlî di Shîrâz, Abû Hafs ‘Umar Suhrawardî, Muhyî-l-Dîn Ibn ‘Arabî.

Il metodo di raccolta e copiatura rappresenta la caratteristica principale di molte delle sue opere più famose. L’opera agiografica più importante di Sulamî sono senz’altro le Tabaqât al-sûfiyya, le “Categorie dei Sufi”, la prima del genere, contenente centocinque biografie di personaggi del Sufismo, corredata da una selezione delle loro sentenze più indicative; essa è forse la versione abbreviata di un’opera molto più vasta, il Tâ’rîkh al-sûfiyya, che conteneva le vite di circa mille personaggi, che però è andata perduta. Delle Tabaqât esistono attualmente due edizioni, la prima a cura di J. Pedersen (Leiden 1960), l’altra a cura di Nûr al-Dîn Sharîba (Cairo 1969).

Il metodo di redazione delle Tabaqât è il medesimo utilizzato per la redazione delle Haqâ’iq al-tafsîr, il commentario del Corano che è stato recentemente edito in due volumi in Libano [17], di cui si conoscevano già quarantaquattro manoscritti, conservati per lo più in biblioteche turche [18]. Si tratta di una selezione di circa tremila versi coranici corredati da circa dodicimila sentenze interpretative, due terzi delle quali citate con riferimento agli autori, all’incirca un centinaio, vissuti tra i secoli VIII e X d. C., il resto invece sono anonime. In questo lavoro esegetico Sulamî ha abbinato i commenti interpretativi dei versetti provenienti da fonti scritte, che rappresentano il materiale principale del commentario, agli aqwâl, sentenze e detti di personaggi insigni del Sufismo. Ha escluso però aneddoti e racconti agiografici, e commenti tipici dell’esegesi tradizionale di tipo legale, filologico o teologico-speculativo.

Accanto a questo commentario principale ne è stato recentemente scoperto uno secondario intitolato Ziyâdât Haqâ’iq al-tafsîr [19] compilato intorno al 980 d.C., qualche tempo dopo le Haqâ’iq al-tafsîr. In questo supplemento Sulamî ripropone inalterato il suo metodo composito di raccolta di detti sufi e glosse coraniche, esso è quindi da considerare come la fase conclusiva di un’unica opera di esegesi. A differenza delle Haqâ’iq al-tafsîr, che furono completate quando la maggior parte del materiale era stato già raccolto dall’autore, le Ziyâdât furono realizzate, con molta probabilità, quando Sulamî ebbe raccolto un’ulteriore, significativa quantità di materiale, proveniente dalle stesse fonti.

In tutto il suo lavoro esegetico egli raccolse quei termini interpretativi in accordo con: “La comprensione del discorso divino in base al linguaggio della Gente della Realtà Essenziale” (fahm kitâbihi ‘alâ lisân ahl al-haqîqa) [20]. Il metodo adottato da Sulamî deriva da un assunto fondamentale, quello cioè che “la Gente della Realtà Essenziale” ha avuto il privilegio di comprendere i segreti della rivelazione divina e le sottigliezze (latâ’if) nascoste nel Libro Sacro; ed è per questo che coloro ai quali sono state rivelate queste Realtà (haqâ’iq) le rendono note a loro volta per via di “allusioni” (ishârât).

L’opera di Sulamî ispirerà altri che, in seguito, seguendone l’esempio, adotteranno il suo metodo e si avvarranno anche del suo stesso materiale per la redazione di altri importanti commentari, come quello di Rûzbehân Baqlî di Shirâz e quello di Qushayrî [21].

Le principali fonti scritte da cui Sulamî ha attinto per la redazione delle sue Haqâ’iq al-tafsîr sono soprattutto i commentari di Abû al-‘Abbâs al-Adamî, meglio conosciuto come Ibn ‘Atâ’, di Abû Bakr Muhammad b. Mûsâ al-Wâsitî, conosciuto come Ibn al-Farghânî, di Sahl al-Tustarî [22], e del sesto Imâm sciita Ja‘far al-Sâdiq. Uno dei temi più complessi riguardanti le fonti di Sulamî è proprio la presenza, nell’opera di commento al Corano di un autore rigorosamente sunnita, di tutte quelle parti che vengono attribuite a una delle principali autorità dello Sciismo, soprattutto perché, alcuni dicono, il materiale che è confluito nelle pagine delle Haqâ’iq al-tafsîr ha scarso riscontro nei commentari che in ambiente tradizionale sciita vengono attribuiti direttamente o indirettamente al sesto Imâm [23].

Tra i commenti più significativi dell’Imâm Ja‘far, che Sulamî riporta nel suo tafsîr, c’è quello relativo al dialogo di Mosè con il roveto ardente nella sura Ta-Ha.

“E quando giunse al fuoco lo chiamammo: Mosè! In verità Io sono il tuo Signore (Innî Anâ Rabbuka)” (Cor. 20: 11-12), spiega Ja‘far: “Fu chiesto a Mosè – su di lui la pace – : ‘Come sapevi che il richiamo veniva da Dio (al-Haqq)?’ Rispose: Perché Egli mi annientò e mi sommerse, al punto che ognuno dei miei capelli era come interpellato da un richiamo proveniente da tutte le direzioni, ed era come se da quello stesso richiamo provenisse una risposta. Quando fui sommerso dalle luci della Maestà, circondato da ogni parte dalle luci della Potenza e del Jabarût, seppi che ero stato chiamato da Dio. E poiché la prima parola del richiamo era ‘Io’, seguita poi da ‘Sono’, compresi che non spetta a nessuno, se non a Dio, parlare di se stesso usando queste due parole unite insieme, una dopo l’altra. Fui colto dallo stupore (dahsh) e quello fu il momento dell’annientamento (fanâ’). Dissi allora: ‘Tu sei Colui che è e che sarà in eterno, non c’è più posto accanto a te per Mosè, né egli avrà più l’audacia di parlarTi, a meno che tu non lo faccia sussistere per mezzo della Tua sussistenza (baqâ’) e non gli attribuisca il Tuo attributo (na‘t). Sarai allora Tu l’interpellante e l’interpellato’. Mi rispose: ‘Nessun altro tranne Me può sostenere il Mio discorso, nessuno Mi può dare una risposta; Io sono Colui che parla e Colui a cui si parla, e tu sei solo un’apparenza (shabah) nel mezzo, laddove è il luogo del discorso” [24].

Un altro esempio del particolare procedimento esegetico di Ja‘far al-Sâdiq è quello relativo al decimo versetto e alla Sura della Stella (sûra al-najm) in cui viene narrata l’ascesa (mi‘râj) del Profeta Muhammad:

“E rivelò al servo Suo quel che rivelò’ (Cor. 53: 10). Ha detto Ja‘far: senza che tra i due vi fosse alcun tramite, (e ciò avvenne) segretamente nel cuore (di Muhammad), senza che nessun altro ne venisse a conoscenza …

Ha poi detto Ja‘far al-Sâdiq a proposito del versetto ‘discese pendulo nell’aria’ (Cor. 53: 8), che esso significa: quando l’amato (da Dio) arrivò il più possibile vicino al suo Amato (al-habîb min al-habîb), e la venerazione (per la Maestà divina) raggiunse l’apice. Per questo Iddio lo trattò con massima amorevolezza, poiché un’estrema venerazione non è sopportabile senza una amorevolezza estrema. Quindi le Sue parole: ‘E rivelò al servo Suo quel che rivelò’ vogliono dire: fu quel che fu e successe quel che successe; l’Amato disse ciò che dice un amato al suo amato, e gli dimostrò l’affetto che un amato dimostra al suo amato, e gli confidò quel che un amato confida al suo amato. Dunque essi celarono e non divulgarono il loro segreto a nessun altro; per questo Egli dice ‘E rivelò al servo Suo quel che rivelò’, nessuno conosce questa rivelazione se non Colui che l’ha rivelata, e colui al quale è stata rivelata” [25].

Riguardo poi al terzo e ultimo genere di opere scritte dallo Shaykh Abû ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî si tratta per la maggior parte di manuali dedicati in senso generale all’istruzione dei discepoli, oppure di scritti su aspetti particolari della tradizione del Sufismo; il più noto di questi è senz’altro al-Risâla al-Malâmatiyya “L’epistola della Gente del Biasimo”, l’unico trattato che sia mai stato dedicato esplicitamente a questo argomento, in cui si espongono i principi della Malâma attraverso le allusioni e le sentenze di importanti personaggi del Sufismo raccolte da Sulamî con lo stesso metodo descritto precedentemente. Appartengono a questo genere anche al-Muqaddima fî-l-tasawwuf (l’Introduzione al Sufismo) [26] e il Kitâb al-Futuwwa (il Libro della Cavalleria) [27], due epistole che si riferiscono ad altrettante, distinte vie di realizzazione spirituale.

Particolarmente indicativa, anche se non è stato mai oggetto di traduzione in lingua occidentale, è una breve raccolta di hadîth intitolata: Kitâb al-arba‘în fî-l-tasawwuf (il Libro dei quaranta ahâdîth sul Sufismo)[28] in cui vengono elencate e commentate da Sulamî quaranta sentenze profetiche corredate dal loro isnâd, la catena dei trasmettitori della testimonianza risalente al Profeta. La cosa più interessante è che l’isnâd di ogni hadîth, inizia con l’espressione akhbaranâ (ci ha comunicato), che è la formula caratteristica della ricezione di un’informazione avvenuta con il consueto metodo di trasmissione della scienza tradizionale (tahammul al-‘ilm); ciò sta a confermare che lo Shaykh al-Sulamî non era solo un esperto conoscitore, era egli stesso un anello di trasmissione di tale scienza. La caratteristica specifica del libro è che in ciascun capitolo, ogni singolo hadîth fa da sostegno ad un particolare principio dottrinale del Sufismo.

Quanto poi alla serie di trattati che Sulamî ha scritto per illustrare le caratteristiche della Via spirituale (sulûk), da questi si deduce la sua azione formativa come guida (murshid) degli aspiranti. Molte di queste sono brevi opere che hanno la funzione di descrivere sinteticamente agli aspiranti le differenti tappe della via degli uomini di conoscenza interiore, la condotta da adottare con i compagni e i maestri, le insidie che l’anima inferiore tende all’aspirante durante il cammino e il rimedio corrispondente, secondo l’orientamento caratteristico della scuola dei maestri di Nîshâpûr.

Il Bayân ahwâl al-sûfiyya (l’Esposizione degli stati spirituali dei Sufi) è forse il testo più semplice tra quelli dedicati al sulûk, in cui Sulamî illustra in modo sintetico le caratteristiche della via dei Sufi, elencando gli obblighi della povertà (faqr), le regole di buona condotta spirituale (adab), le stazioni (maqâmât) e gli stati spirituali (ahwâl) [29]. L’importanza di questo trattato sta invece negli indizi che permettono di definire con precisione qual’è secondo lui l’origine vera del Sufismo, e che consentono immancabilmente di identificare i primi Sufi in quel gruppo di asceti chiamati “la Gente della Veranda” (ahl al-suffa), che stazionavano fuori della casa del profeta a Medina, di cui facevano parte i più poveri tra gli emigranti meccani.

Secondo Sulamî essi sono descritti in questo verso del Corano:

“Sia distribuito il bottino anche agli emigranti poveri (lil-fuqarâ’ al-muhâjirîn) i quali sono stati espulsi dalle loro dimore e dai loro possedimenti, perché cercavano il favore di Dio e la Sua soddisfazione, e accorrevano in aiuto di Dio e del Suo Inviato. Sono costoro ad essere davvero veritieri!” (Cor. 59: 8).

Di essi, in quanto poveri (fuqarâ’), si parla anche in questo versetto:

“Ed elargirete a quei poveri che si sono totalmente impegnati sulla via di Dio tanto da non poter percorrere la terra per commerciare. L’ignorante li reputa ricchi, per la loro dignitosa modestia, mentre tu li riconoscerai dal segno che li contraddistingue: essi non chiedono con insistenza alla gente” (Cor. 2: 273).

Per finire bisogna segnalare che Sulamî cita spesso, in questo e in altri trattati, un altro passo coranico: “Non respingere coloro che pregano il loro Signore mattina e sera, per desiderio del Suo volto” (Cor. 6: 52). Secondo alcuni commentatori questo versetto sarebbe stato rivelato in occasione di un episodio accertato, ovvero l’arrivo di alcuni notabili di una tribù araba nella moschea di Medina, tra cui anche Uyayna b. Hisn, capo di una tribù dei Ghatafân. Costoro, volendo convertirsi, giunsero al cospetto del Profeta, ma rimasero in disparte, e non vollero avvicinarsi al gruppo dei compagni che occupava il fondo della moschea. Lì c’erano alcuni della “Gente della Veranda”, tra cui Salmân al-Fârisî e Abû Dharr al-Ghifârî, i quali essendo molto poveri, indossavano un pesante mantello di lana (sûf) e sudavano, cosicché proveniva da loro un odore simile a quello dei montoni quando li sorprende la pioggia. I notabili chiesero a Muhammad di lasciare i suoi compagni per unirsi a loro, ma l’arrivo del versetto impedì al Profeta di muoversi. Fu allora che, secondo Sulamî e altri commentatori, fu rivelato a Muhammad anche un altro versetto:

“E gli occhi tuoi non si stornino da loro per desiderio di bellezze mondane” (Cor. 18: 28).[30] Alla fine il Profeta rimase a sedere insieme ai suoi compagni e disse:

“Sia ringraziato Iddio, Egli è stato benevolo con me, e ha fatto sì che io sieda assieme a quelli della mia nazione (umma), in vita e in morte” [31].

Ciò sarebbe una conferma che la guida di quel primo gruppo di asceti e fuqarâ’ della storia dell’Islâm, non era altri che il Profeta stesso.

[1]  Circa i nomi di altri che trasmisero notizie a Sulamî, vedere R. Deladrière: “Les Premiers Malâmatiyya: les ‘Gardiens du Secret’ (al-’umanâ’)”, in: Melamis-Bayramis. Études sur trois mouvements mystiques musulmans, a cura di N. Clayer, A. Popovich, Th. Zarcone, Istanbul 1998, pp. 2-3.

[2]  Su Ibn Nujayd vedere Sulamî: Tabaqât al-Sûfiyya, Il Cairo 1997, pp. 454-457. Qushayrî: Al-Risâla al-qushayriyya, Il Cairo 1940, p. 31.

[3]  Vedere su di lui Sulamî: Tabaqât al-Sûfiyya, pp. 123-129. Dichiara l’autore che “Da lui si diffuse la scuola dei Malâmatî (wa minhu intashara madhhab al-malâma)”, ibidem p. 123; Abû Nu‘aym, Hilyat al-awliyâ’, X, 231; Qushayrî: Risâla, p. 19.

[4]  ‘Alî ibn ‘Uthmân Hujwîrî: Kashf al-mahjûb, Teheran 1383 (h.sh.), trad. ingl.: The Kashf almahjûb, the oldest persian tratise on Sufism, a cura di R. A. Nicholson, Lahore 1976, d’ora in poi l’edizione di riferimento p.183.

[5]  Ibidem.

[6]  Il samâ‘ è nel linguaggio particolare del tasawwuf, l’ascolto di melodie e componimenti sacri, che possono veicolare stati di intenso coinvolgimento spirituale, o di vera e propria estasi (wajd).

[7]  Il dhikr è la memorazione del Nome di Dio, rito centrale del tasawwuf. Può essere eseguito ad alta voce, oppure “con il cuore”, come nel caso dei Malâmatî.

[8]  Cfr. A. Schimmel: Le Soufisme ou les dimensions mystiques de l’Islam. Parigi 1996, p. 150.

[9]  Sulamî: Risâla al-malâmatiyya, trad. it.: I custodi del segreto, a cura di G. Sassi, Milano 1997, pp. 31-32.

[10]  Su di lui vedere Sulamî: Tabaqât, pp. 115-122.

[11]  Ibidem p. 118.

[12]  Hujwîrî: Kashf, p. 124.

[13]  Abû-l-Qâsim al-Junayd al-Baghdâdî nacque a Nehâvand in Persia, ma visse prevalentemente a Baghdâd dove morì nel 297 h. (910 d.C.). Fu uno dei maestri più importanti della scuola di Baghdâd che ebbe un ruolo importante nello sviluppo dottrinale del Sufismo. Su di lui vedere: A. H. Abdel-Kader: The Life, Personality and Writings of al-Junayd, London 1976. Sulamî dedica a Junayd un lungo capitolo nelle sue Tabaqât, pp. 155-163; vedere anche ‘Attâr: Tadhkirat al-awliyâ’. Parole di Sûfî, Milano 1994, pp. 307-311; Abû Nu‘aym: Hilyat, X, 255; Qushayrî: Risâla, p. 20; Hujwîrî, Kashf, pp. 128-30.

[14]  Sulamî: Tabaqât pp. 117-118. Lo stesso aneddoto compare in Hujwîrî: Kashf, pp. 123-124.

[15]  Hujwîrî: Kashf, p. 193. L’autore si riferisce qui ad un preciso fatto storico, a quando Abû al-Hasan Nûrî (m. 907 d.C.), Raqqâm e Abû Hamza, tre sufi del gruppo di Baghdâd, furono accusati di eresia e condannati a morte per ordine del Califfo. Quando il boia si accostò a Raqqâm, Nûrî si alzò e si offrì al suo posto. Gli fu chiesto il motivo di un comportamento così generoso e Nûrî rispose: “La mia dottrina è fondata sul sacrificio altruistico (îthâr). La vita è il bene più prezioso al mondo, ed io desidero sacrificare per il bene dei miei fratelli gli ultimi momenti che mi rimangono. A mio giudizio, un istante in questo mondo è migliore di mille anni nel mondo a venire, poiché questo è il luogo del servizio devoto (khidma) e quello è il luogo della prossimità (qurba), e la prossimità si guadagna con il servizio devoto”. Queste parole giunsero alle orecchie del Califfo che salvò la vita a Nûrî e agli altri suoi compagni. Ibidem p. 191.

[16]  G. Böwering: “The Qur’ân Commentary of al-Sulamî” in: Islamic Studies presented to Charles J. Adams, Leiden 1991, pp. 43-45. Per l’elenco delle opere di Sulamî, e la collocazione dei manoscritti delle tre opere tradotte in questo libro, vedere: Brockelmann, GAL I, 218-219, GAS I, 361; Sezgin, GAS I, 671-674; Ziriqlî, Al-A‘lâm VI, 99; Kahhâla, Mu‘jam IX, 258-259.

[17]  Sulamî: Haqâ’iq al-Tafsîr, 2 voll., a cura di S. ‘Umrân, Dâr al-kutub al-‘ilmiyya, Beirut 2001.

[18]  Per la lista completa dei manoscritti e delle biblioteche in cui si trovano vedere G. Böwering: “The Qur’ân Commentary of al-Sulamî”, pp. 41-56.

[19]  Ziyâdât Haqâ’iq al-tafsîr. The Minor Qur’ân Commentary of Abû ‘Abd al-Rahmân Muhammad ibn al-Husayn al-Sulamî (d. 412/1021), a cura di G. Böwering, Beirut 1995. L’edizione araba è stata ricavata dall’unico manoscritto conosciuto, conservato nella Gazi Husrev Beg Biblioteka di Sarajevo. Vedere anche G. Böwering: “The Major Sources of Sulamî’s minor Qur’ân commentary”, in Oriens, 1996, n. 35.

[20]  G. Böwering: The Mystical Vision of Existence in Classical Islam, Berlino 1980, p. 111.

[21]  Rûzbehân Baqlî: Arâ’is al-bayân fî haqâ’iq al-Qur’ân, 2 voll., Kawnpore 1884. Qushayrî:

Latâ’if al-ishârât, 3 voll., Il Cairo 1981.

[22]  Vedere G. Böwering: The Mystical Vision, pp. 52-53. La relazione tra Ibn ‘Atâ’ e Sulamî è stata esaminata da P. Nwyia in: Trois Oeuvres inédites de Mystiques musulmans, Beirut 1973, pp. 23-182; quella tra Sulamî e Tustarî da G. Böwering in The Mystical Vision, pp. 110-128.

[23]  G. Böwering esprime seri dubbi sull’attribuzione del commentario coranico all’Imâm Ja‘far al-Sâdiq. Tale attribuzione, spiega Böwering, sarebbe dovuta all’estrema popolarità di quest’ultimo negli ambienti del Sufismo e alla tendenza da parte di autori sunniti, tra cui Sulamî, Hujwîrî e altri, ad “appropriarsi” della figura e della personalità spirituale di Ja‘far al-Sâdiq, prescindendo da qualsiasi sua appartenenza allo Sciismo. Il nome del sesto Imâm, secondo Böwering, sarebbe stato usato indebitamente per dare risalto ad un commentario apocrifo. Cfr. “The Qur’ân Commentary of al-Sulamî”, pp. 53-54. Lo stesso dubbio è condiviso da Massignon il quale però, esaminando le fonti nel suo Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Parigi 1999, pp. 201-213, rifiuta di respingere a priori l’attribuzione delle sentenze nel tafsîr di Sulamî a Ja‘far al-Sâdiq, fidandosi dell’autorità di Ibn ‘Atâ’ e Dhû-l-Nûn Misrî, che furono i primi a darne testimonianza. Vi è poi il parere contrastante di P. Nwyia che segnala delle forti analogie tra il testo esegetico attribuito a Ja‘far Sâdiq con un commentario del Corano che porta il suo nome, raccolto da Muhammad b. Ibrahîm al-Nu‘mânî, discepolo di Kulaynî (m. 940) l’autore dell’Usûl al-kâfî una delle più importanti raccolte di Hadîth redatte in ambito sciita. Vedere Exégèse coranique et langage mystique,Beirut 1991, p. 159. Sempre P. Nwyia ha raccolto in un unico fascicolo tutte le sentenze del sesto Imâm contenute nelle Haqâ’iq al-tafsîr di Sulamî dal titolo: “Le Tafsîr mystique attribué à Ja‘far Sâdiq” in Mélanges de l’Université Saint-Joseph, tome XLIII/4, Beirut 1968.

[24]  Sulamî: Haqâ’iq al-tafsîr, I, 436. P. Nwyia: Le Tafsîr mystique attribué à Ja‘far Sâdiq, p. 209; Exégèse coranique et langage mystique, pp. 179-180.

[25]  Sulamî: Haqâ’iq al-tafsîr, II, 284-285; P. Nwyia: Le Tafsîr mystique attribué à Ja‘far Sâdiq, p. 223; Exégèse coranique et langage mystique, p. 186.

[26]  Vedere Sulamî: Introduzione al Sufismo (Al-Muqaddima fi-l-tasawwuf), a cura di Demetrio Giordani, Torino 2002.

[27]  Vedere, Sulamî: Futuwwa, traité de chevalerie spirituelle, a cura di F. Skalî, Parigi 1989.

[28]  Edizione a cura di N. Pûrjavâdî, Teheran 1372 H.sh..

[29]  La traduzione integrale del trattato è in: As-Sulamî: La Scala di Luce. Tre antichi testi di scuola malâmatî. A cura di Demetrio Giordani, Torino 2006, pp. 107-121.

[30]  Cfr. Qurtubî: Al-Jâmi‘ li-ahkâm al-Qur’ân, Il Cairo 1950, X, 390-392, e Muhammad

Thanâ’ullâh Pânîpâtî: Al-Tafsîr al-mazharî, Lahore 1991, IV, 29. Nel suo commento al versetto 18: 28 Sulamî riporta una frase di Wâsitî secondo il quale il significato delle parole potrebbe essere anche: “Non distogliere i tuoi occhi da loro volgendoli altrove, poiché essi non distolgono i loro occhi da Me nemmeno per un istante” (Haqa’iq al-tafsîr, vol. I, p. 409.) L’episodio è riportato in parte da Kalâbâdhî: Ta‘arruf, trad. it., Il Sufismo nelle parole degli antichi, a cura di P. Urizzi, Palermo 2002, p. 58.

[31] Sulamî: La Scala di Luce, op. cit. pp. 109-110. Non è possibile risalire alle fonti del hadîth citato. Il curatore del testo arabo suggerisce una versione simile del hadîth contenuta nel Sunan di Abû Dâwud, ‘Ilm 13. Un’altra versione simile compare anche nel Jâmi‘ li-ahkâm al-Qur’ân di Qurtubî, X, 391, senza indicazioni di sorta.

Demetrio Giordani insegna Storia dei paesi islamici  all'Università di Modena e Reggio Emilia. Ha curato per Mimesi la traduzione del Mabda' o Ma' âd, di Shaykh Ahmad Sirhindî (L'inizio e il ritorno, Milano 2003). Ha inoltre curato la traduzione di alcun trattati di Abû 'Abd al-Rahmân al-Sulamî: Introduzione al Sufismo (Torino 2002), La scala di luce (Torino 2006).

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