La Consulta Nazionale Interreligiosa e delle Istituzioni Tradizionali – vedasi sezione dedicata – ha realizzato, nell’ambito delle iniziative connesse ai propri compiti d’istituto, dei corto e lungometraggi; alcuni dei quali hanno, ormai, valore storico. I migliori di questi sono stati realizzati grazie all’amichevole, generosa, collaborazione di Morando Jr Morandini; regista e sceneggiatore tanto sensibile e geniale, quanto schivo e riservato. Autore che, comunque, non disperiamo poter ancora coinvolgere nella realizzazione di un documentario antologico su tutte le manifestazioni patrocinate dalla C.N.I.I.T., in quasi trent’anni di attività. Di Morando Jr Morandini – che è, per inciso, l’autore del volume Professione Sceneggiatore ed ha collaborato con lo zio, l’indimenticato critico cinematografico Morando Morandini, alla realizzazione de I Morandini delle donne. 60 anni di cinema italiano al femminile – è pure il primo dei documentari che inaugura questa sezione dedicata ai video. Il filmato verte su Damanhur, la più grande comunità d’Europa che, per decenni, è stata partecipe di un proficuo rapporto di collaborazione con la Consulta Nazionale Interreligiosa e delle Istituzioni Tradizionali; vedasi in merito il capitolo La scuola di Damanhur, tratto da LA PEDAGOGIA VERSO LA SOCIETA’ POLISEMANTICA-Il realismo dell’educazione, Sandra Chistolini, CLEUP Edizioni, Padova, 2004;
Per una metafisica dell’umiliazione: la via della mortificazione del Sé nella mistica sufica
di Emanuele Franz - tratto dalla testata online Ereticamente.net
“E chi vede ancora se stesso come un essere libero e autonomo,
decade allora dal grado di coloro che conoscono la Verità”
(Abd al-Rahman Al-Sulami – “La scala di Luce”- Leone verde edizioni 2006 pg. 60)
I miei lettori abituali noteranno che la mia ricerca e i miei interessi non si fermano a una o due religioni ma si estendono a tutte, convinto che unire sia innalzarsi. Sono infatti dell’idea che esista una specie di codice racchiuso nei mistici di ogni tempo, un codice perenne e universale e che trascende pertanto i singoli aspetti istituzionali di un determinato culto. Chi divide è simile a colui che non riconosce che tutti i colori vengono dalla medesima Luce. Sull’argomento che qui mi propongo di trattare mi sono già espresso in approfondite ricerche, ad esempio nel mio studio “L’umiliazione come pratica religiosa” ¹ in cui affrontavo il ruolo dell’automortificazione come Simbolo che ha accompagnato svariate pratiche mistiche, dai Miti Greci ai mistici cristiani medioevali fino alle pratiche dello Sivaismo Tantrico. Altrove, nel mio studio sulla “Sottomissione alla donna e ideale cavalleresco” ² ho evidenziato la similitudine di certe pratiche di sottomissione all’ideale femminile della letteratura cavalleresca del IX secolo in Europa con il fiorire in Kashmir del Tantra, quasi che appunto, come ho cercato di evidenziare, in più civiltà e in luoghi distanti emergesse un unico codice sovrastante. Voglio ora ritornare sull’argomento, portando l’analisi a conseguenze ancora più profonde e a partire dalla prospettiva della mistica Islamica.
Dopo aver iniziato a leggere gli scritti di Abu ‘Abd al-Rahman al-Sulami ho avuto delle fortissime emozioni: la scuola Sufi dei Malâmatî, da questo Mistico portata al vertice cristallino della sua espressione, si è sviluppata nel IX secolo a Nishapur nell’attuale Iran. Eterodossa, ai margini dell’Islam tradizionale e dell’Officio di Culto istituzionale, vissuta da una cerchia di uomini dediti a quel principio della “dissimulazione dell’atto interiore” tanto simile, parrebbe quasi identica, a certe sette fiorite nelle scuole del Tantra del Khasmir, si veda ad esempio la più estrema delle sette di sādhu ovvero quella degli Aghori, fondata da Kina Ram, un asceta del XVIII secolo. Essi ricercano l’illuminazione seguendo, tra i comportamenti di Shiva, quelli che sono considerati come i più fuori dalla norma, ovvero suscitando il disprezzo della società comune per essere puri asceti. Non dissimile l’atteggiamento non solo della scuola Sufi Malâmatî, che insegna, a “non frequentare chi mostra piacere in vostra compagnia, propendendo invece per la frequentazione di chi vi disprezza” ³ ma anche a certe squisite vette letterarie dell’amor cortese dei trovadores, sempre del IX secolo nell’Europa del nord dove troviamo un Lancillotto che si copre di pubblico scherno per sublimare nell’estasi amoroso la sua elevazione. Karl Jaspers, definirà come “Periodo assiale” l’epoca intorno al 300 avanti Cristo, che vide una presa di coscienza dell’Essere quasi contemporanea in India, Cina, Palestina, Iran e Grecia. Ebbene qui nel IX secolo, questo io affermo con convinzione inaudita, siamo di fronte a uno snodo universale, una rivoluzione della sensibilità umana che ha portato alla scoperta di quella κένωσις di cui parlava anche San Paolo, ovvero dello svuotamento di sé, e sto parlando di una sorta di “metafisica dell’umiliazione” in cui l’uomo, spogliatosi del suo amor proprio, giunge a Dio attraverso la de-sostanziazione di sé stesso e, in ultima analisi, del mondo.
Il Malâmatî doveva in primo luogo cercare di non discutere con la gente per quello che essi dicevano di lui, né offendersi per essere criticato o disprezzato, ma anzi fare di tutto per attirare il biasimo della gente, senza che tale azione fosse in sé un peccato grave o un’offesa, ma solo un espediente per essere respinto. Quel che sta alla base di tale pratica, da intendersi come una pratica di perfezionamento interiore, e quindi ristretta a un contesto religioso (Ci si guardi bene dal fraintendere tali pratiche o di utilizzarle al di fuori dell’opportuno contesto!) è il non rivelare fuori di sé ciò che è la propria stessa interiorità onde tutelarla dal pericolo, scontato, dell’autocompiacimento. Al-Sulami riporta il concetto secondo il quale: “Iddio non guarda il vostro aspetto o le vostre azioni, guarda invece i vostri cuori”. C’è, d’altra parte, qualche richiamo analogo pure nei Vangeli, sia nella massima: “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3) ma, più inerente ancor alla via del Biasimo Sufi, il noto: “Se uno ti vuole togliere la tunica, tu lasciagli anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne due” (Matteo 5,40-41). Pure in un certo senso questa “dissimulazione dell’atto interiore”, tanto amabilmente delineata dalla mistica islamica, trova tracce del Mito Greco. Si pensi all’espressione di Eschilo, nelle Coefore (903) quando scrive: “Fatti pure nemici tutti gli uomini, ma non gli Dei”. Egualmente Al-Sulami dice dei mistici Sufi che: “La loro realtà esteriore si prodiga per le creature mentre il loro segreto interiore resta preservato per il Vero” (“La scala di Luce” pg.63).
Il concetto di biasimo (malâma) trae la sua origine sostanzialmente da un passaggio coranico in cui viene menzionata “l’anima che biasima se stessa” (al-nafs al-lawwâma) (Cor. 75: 2). Il senso del biasimo allora, nella prospettiva del perfezionamento propria dei Malâmatî, era sia l’esporre sé stessi al biasimo degli altri ma anche oculare uno stato interiore. Al-Sulami è chiaro su questo punto, tanto da dire che: “Coloro che portano il nome di Malâmatî mostrano agli altri ciò che hanno di brutto, e nascondono le cose belle, quindi le genti li riprovano per la loro apparenza” (“I custodi del segreto” pg.23). Il significato profondo di tale pratica, è lo stesso mistico Sufi a dirlo: l’adepto, con la pratica, estingue gradualmente le sue caratteristiche individuali, venendo infine “privato anche di sé stesso”, allo scopo supremo di conoscere l’Altissimo attraverso una logica che ai non iniziati appare paradossale. Scrive infatti Al-Sulami: “La realtà di ogni cosa si realizza per mezzo del suo opposto (…) conoscerai Dio solo tramite la negazione di ciò che non è Lui” poiché “solo quando ci si dimentica di sé stessi si conosce il Signore” (“La scala di Luce” pg.94). Si penetra, pertanto, attraverso questo totale abbandono di sé, a un rilascio completo per penetrare in una dimensione estatica, di pienezza. D’altra parte certi aspetti del misticismo islamico, come abbiamo detto, rientrano a più riprese nelle scuole mistiche di diverse religioni, a prova, più che evidente, che una sola Luce si è manifestata nei Saggi di tutti i tempi.
“Dio ha messo noi apostoli all’ultimo posto, resi spettacolo al mondo (…) soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, insultati, calunniati…siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti” (1 – Cor4, 9-13). Il precedente passo di San Paolo dalla lettera ai Corinzi è esemplare sul significato dell’umiliazione come pratica religiosa. E il parallelismo con certe pratiche tantriche è d’obbligo, si noti infatti il Tantra quando dice: “Agisca, insomma, dimodo che ottenga il disprezzo. Disprezzato, infatti, il saggio raggiunge la perfezione dell’ascesi” (Pāśupata Sūtra III). Egualmente per il Mistico Sufi l’amor proprio è un velo che ci separa dalla verità. Sempre Al-Sulami informa l’aspirante che: “Fra i vari aspetti dell’educazione spirituale vi è l’umiliazione dell’anima, poiché infatti per onorare più di ogni altra cosa la propria anima si perde interesse per la via spirituale (“La scala di Luce” pg. 79)
Ma pratiche simili si trovano anche in talune vie ascetiche della Chiesa ortodossa russa, in quella che viene chiamata la “stoltezza in Cristo” poiché l’asceta che ne intraprende il cammino è “uno stolto in Cristo”, o “pazzo di Dio”. Gli stolti in Cristo sono asceti o monaci russi che abbandonano la sapienza umana per scegliere la “sapienza del cuore”. Essi si aggirano per le città vestiti di stracci, mortificando il corpo attraverso digiuni e lunghe veglie e dormendo all’aperto. Anch’essi, come già nei Sadhu indiani, o nei Malâmatî, in certi casi sono anche oggetto di pubblico disprezzo, quest’ultimo talvolta da essi ricercato come ulteriore mezzo di ascesi. Pure, come ripeto, è da scongiurare il pericolo di un facile fraintendimento e di una decontestualizzazione di tali pratiche, essendo del tutto
prive di senso qualora espropriate del contesto cui sono sorte, ovvero quello iniziatico, erano infatti pratiche destinate ai pochissimi, poche decine di discepoli, addestrati da anni di pratiche. Parallelismi, d’altronde, con altre usanze mistiche, fioriscono a ogni riga. Quando Al-Sulami scrive che: “le azioni cattive delle persone nei riguardi del discepolo sono da considerarsi buone” e che gli atti di obbedienza vanno condotti nel modo “più puro possibile, ma poi considerati come i più impuri che siano” stiamo scorgendo tecniche iniziatiche già conosciute dai Tantra Buddhisti per superare la dualità mentale di puro-impuro, gusto-disgusto, bello-brutto e così via. Altrove infatti ho trattato l’argomento del “disgusto volontario” nella pratica Tantrica. ʸ Alla stessa stregua del compiere atti disgustosi per arrivare a quella indifferenza del sentire, egualmente la via del Biasimo si propone di giungere a uno stato di quietudine di fronte al turbamento del mondo dei sensi, che è quello dell’apparenza. E la pratica è quella di provocare volontariamente una tensione che metta alla prova l’Ego, e su questo, leggendo Al-Sulami, pare chiaro, quando afferma che: “i Malâmatî scelgono l’opposto di ciò che vuole la loro anima (…) per far cadere la considerazione, la stima e lo sguardo rispettoso del mondo nei loro confronti (…) fino a considerarsi miserabili e umiliarsi.”
E ancora, al livello più alto della loro annichilazione, in cui: “Mostrano agli altri ciò che può farli scadere ai loro occhi, ovvero ciò che genera disprezzo e repulsione e spinge gli altri a respingerli” (“I custodi del segreto” pg.32 e 40). Tale atteggiamento doveva rivelarsi a partire dal livello più basilare della vita del Sufi, dal confondersi fra le gente comune, vestendo con vesti da poco, e perfino nell’alimentazione, infatti: “Essi hanno la pratica di accettare il nutrimento quando in ciò c’è umiliazione” (“I custodi del segreto” pg.33). Sembrerà, agli occhi della sensibilità comune, che queste pratiche siano assurde, del tutto irrazionali, e, non a caso, erano riservate a una ristretta cerchia di uomini dediti ad agire in modo da sconvolgere il loro essere in modo profondo e radicale, certo, in modo “assurdo” agli occhi dei più, come, d’altronde, in moltissime scuole mistiche. Ionesco diceva che è nell’irreale che affondano le radici del reale.
Presumo la maggior parte delle persone cerchi un senso all’assurdo dell’esistenza nella razionalità e nell’ordine, nella regola, nella forma; il problema è che così facendo si determina uno scarto, uno iato, con la natura stessa dell’universo, che, per dirla alla Bergson, presenta un più alto ordine di associazione. In sostanza, capisco sia un arabesco di termini, pure squisito, l’ordine sarebbe incoerente con l’irrazionalità sovrastante. Se salvezza può esserci quindi, è nell’assurdo stesso. Non si può far fronte alla follia se non con la follia stessa, e, nel paradosso, essa diventerà coerenza, quindi, luce nella luce, essa diventerà “Significato”, e questi è riposto in un Essere che trascende la logica umana. Quello che accade alla psiche in una fase estrema come quella del biasimo, o dell’umiliazione estrema, sempre che tale atto sia un atto religioso e non fine a sé stesso, è una sorta di travaso ontologico della psiche dall’In Sé al fuori di sé. Mi spiego meglio, Jean-Paul Sartre nel suo -L’essere e il nulla- lo avrebbe indubbiamente definito come: “Il tentativo della coscienza di ridursi a nulla, riducendosi a oggetto soffocato dall’abissale soggettività dell’Altro”, soltanto che quello che io voglio qui azzardare è che appunto tale svuotamento non sia soltanto uno svuotamento dell’Io ma anche delle cose del mondo. Il mondo stesso, al limite della mortificazione, viene de-sostanziato agli occhi dell’Iniziato. Come avviene per un vaso di cui si travasa il contenuto, rimanendo vuoto e permettendo quindi che l’Altro entri dentro di Sé, così l’uomo schernito, coperto di ridicolo, superato il limite della vergogna che lo annienta, opera un travaso dell’Io per lasciare soltanto il Vaso. Il contenuto è fuori gioco lasciando soltanto il contenente. Il contenuto, l’Io, principio maschile, si è svuotato lasciando al Vaso (o Atanor degli alchimisti, qui principio femminile) la capacità ricettiva e lunare di accogliere l’Essere intero, non più come forma condizionata, ma come Essere Assoluto.
È la metafisica dell’umiliazione, ovvero sia un processo sovra individuale, oserei dire cosmico, in cui l’Essere rientra in sé stesso, si riappropria di Sé stesso, dopo la sua scissione originaria nell’Io. Al-Sulami racconta di quando il Profeta chiese: “Cos’hai conservato di quel che ti apparteneva?” e la risposta fu: “Iddio l’Altissimo”. In altre parole, dopo aver perduto tutta la rappresentazione mentale di noi stessi attraverso l’umiliazione, dopo aver quindi perduto l’effimero e l’illusorio attraverso la derisione di noi stessi, non può che rimanere, come dice Al-Sulami, “ciò che non perisce, ciò che permane per sempre, poiché Iddio è colui che permane, è Colui che non è mai cessato e non cesserà mai di essere”.
[1] https://www.ereticamente.net/2017/07/lumiliazione-come-pratica-religiosa-emanuele-franz.html
[2] https://www.ereticamente.net/2019/07/sottomissione-alla-donna-e-ideale-cavalleresco-emanuele-franz.html
[3] Al-Sulami; “I custodi del segreto”, a cura di G. Sassi, Milano, 1997 pp. 31
[4] https://www.ereticamente.net/2018/04/lurinoterapia-secondo-i-tantra-emanuele-franz.html
Bibliografia:
– Abd al-Rahman Al-Sulami “La scala di Luce”- Leone verde edizioni, 2006
– Abd al-Rahman Al-Sulami “I custodi del segreto”, a cura di G. Sassi, Luni Editrice, Milano, 1997
– Pāśupata Sūtra; Boringhieri 1962 a cura di Raniero Gnoli.
Emanuele Franz
Emanuele Franz (Gemona del Friuli, 14 agosto 1981) è saggista, filosofo e poeta. Nel 2008 fonda la casa editrice Audax (www.audaxeditrice.com) che tutt’ora dirige. Ha all’attivo oltre 16 pubblicazioni che spaziano dalla poesia alla saggistica. Si occupa di filosofia e storia delle religioni. La sua maggiore Opera nel campo della saggistica è Le basi esoteriche della microbiologia. Principi per una nuova teoria della vita basata sul Pensiero Esteso, del 2016. L’Opera subito dopo la pubblicazione raggiunge grande apprezzamento da studiosi e intellettuali italiani, come il neuropsicologo Franco Fabbro e il giornalista Marcello Veneziani, ed anche all’estero con l’apprezzamento del filosofo Noam Chomsky. Del 2017 invece il suo -La storia come organismo vivente-; un saggio sulla storia universale che sfocia nella filosofia politica in cui sostiene una innovativa teoria sul tempo, argomentando la tesi che la storia è un organismo e il tempo un corpo, in modo che nel sistema vivente complessivo il futuro possa interagire, nonché influenzare, il passato. Il libro è apprezzato da molti studiosi fra cui Massimo Cacciari, Marcello Veneziani, Noam Chomsky, Sossio Giametta, Alessandro Barbero, Emanuele Severino e altri.