La Consulta Nazionale Interreligiosa e delle Istituzioni Tradizionali – vedasi sezione dedicata – ha realizzato, nell’ambito delle iniziative connesse ai propri compiti d’istituto, dei corto e lungometraggi; alcuni dei quali hanno, ormai, valore storico. I migliori di questi sono stati realizzati grazie all’amichevole, generosa, collaborazione di Morando Jr Morandini; regista e sceneggiatore tanto sensibile e geniale, quanto schivo e riservato. Autore che, comunque, non disperiamo poter ancora coinvolgere nella realizzazione di un documentario antologico su tutte le manifestazioni patrocinate dalla C.N.I.I.T., in quasi trent’anni di attività. Di Morando Jr Morandini – che è, per inciso, l’autore del volume Professione Sceneggiatore ed ha collaborato con lo zio, l’indimenticato critico cinematografico Morando Morandini, alla realizzazione de I Morandini delle donne. 60 anni di cinema italiano al femminile – è pure il primo dei documentari che inaugura questa sezione dedicata ai video. Il filmato verte su Damanhur, la più grande comunità d’Europa che, per decenni, è stata partecipe di un proficuo rapporto di collaborazione con la Consulta Nazionale Interreligiosa e delle Istituzioni Tradizionali; vedasi in merito il capitolo La scuola di Damanhur, tratto da LA PEDAGOGIA VERSO LA SOCIETA’ POLISEMANTICA-Il realismo dell’educazione, Sandra Chistolini, CLEUP Edizioni, Padova, 2004;
INVERSIONE E QUALIFICAZIONE
di Vincenzo Monteforte
Emilio Servadio all'epoca del suo esilio in India
La scena si è svolta qualche anno addietro in una libreria romana e ci è stata raccontata da un amico che vi ha assistito personalmente.
Un “vecchietto malandato” che aveva comprato numerosi testi di psicanalisi, curiosando fra gli scaffali prese, a un certo punto, un libro di Evola in mano e lo soppesò per pochi secondi, lasciandolo quindi ricadere con noncuranza, senza “niente ricordare”.
Quel “vecchietto” altri non era che Emilio Servadio; personaggio alquanto noto per la sua frequente collaborazione – mediante articoli, interviste e lettere al direttore – a periodici di grandi tirature. Egli risulta, infatti, essere uno dei maggiori esperti di psicanalisi, parapsicologia e sessuologia.
Le “scienze” di cui il nostro si occupa con notevole successo e dedizione appartengono, com’è noto, a quella vasta schiera di frutti maleodoranti seminati con dovizia dalla contro tradizione in questa particolare fase ciclica in cui ci troviamo a vivere, e che vengono comunemente raggruppati sotto il termine di neo-spiritualismo.
Se, inoltre, si tiene presente che caratteristica comune a queste “scienze” è una costante tendenza al subumano, risulta chiaro che il Servadio ha ben poco da spartire col mondo e con le idee cui questa rivista si richiama. Ma allora, potrà chiedersi qualcuno, perché interessarsi di costui quando, per un eventuale discorso sugli “agenti della sovversione”, si sarebbero potute trovare ben altre figure di fedeli servitori dell’Avversario?
Il nostro intento diverrà subito chiaro e la scena raccontata all’inizio apparirà in tutto il suo significato emblematico qualora ci si rivolga per un attimo all’attività svolta dal Servadio intorno agli anni Trenta; a quelli che potremmo definire i suoi “trascorsi evoliani”.
Già Evola stesso, parlando della rivista La Torre da lui diretta, e a cui Servadio aveva collaborato, lo ricordava come «lo stesso che oggi si è specializzato in psicanalisi professionale, ma che a quel tempo aveva interesse per orizzonti più vasti e degni». Anche se, a dire il vero, già allora egli manifestava numerose incongruenze con quella che avrebbe dovuto essere una solida visione tradizionale.
Naturalmente egli non ha mancato di saccheggiare, di tanto in tanto, le opere di Evola per condire le sue elucubrazioni psicanalitiche – come d’altra parte hanno fatto e continuano a fare numerosi “intellettuali” che mai sognerebbero di mischiare i loro nobili nomi con quello del “mostro” Evola –, senza mai degnarsi di citarlo.
A questo punto, è bene dire che il nostro interesse per il “caso Servadio” nasce dal fatto che esso ci permette di allargare il discorso per trattare un problema che riguarda direttamente tutti quei gruppi di ispirazione tradizionale che, se non vogliono isterilirsi in un vuoto intellettualismo e in una certosina catalogazione della dottrina, debbono prima o poi porsi il problema di una concreta approssimazione alla trascendenza.
Il problema è quello della qualificazione (di elementi che vengono condotti a percorrere una particolare via realizzativa), venendo a mancare la quale, spesso, possono verificarsi casi di vera e propria inversione. E anche se nel Servadio il tutto si è limitato a qualcosa di eminentemente superficiale, si può ugualmente leggere nella sua vicenda il simbolismo della caduta di colui che, avventuratosi per una strada per la quale non possedeva la necessaria qualificazione, si ritrova a percorrerne un’altra di segno opposto.
Il principio è quello per cui una volta che ci si discosti da quella che potremmo chiamare la “vita ordinaria”, riconoscendo la vacuità di tutto ciò che ci circonda e constatando lo stato larvale di esistenza della gran parte delle persone, se non si possiede una natura adatta ad attraversare questa “terra bruciata” che ci si scopre attorno – se no si è mossi da “intenzione retta e pura” –, c’è il rischio di andare incontro a spiacevoli sorprese.
Le possibilità in cui una tale crisi può sfociare sono, nei casi più catastrofici, di due diversi tipi. Da una parte, ci si può trovare in una prigione da cui non si è saputo uscire. Si è acquisita consapevolezza di questo aspetto opprimente della condizione umana, senza però scorgere una possibile via di uscita. Si è rimosso un velo, una maschera – che dava alla realtà un volto, tutto sommato, rassicurante –, senza trovare la vera immagine. Per concretizzare con un esempio, basti pensare alla esperienza nietzschiana. Dall’altra, c’è anche la possibilità, molto più devastante della prima, di riuscire ad aprire la porta di quella che abbiamo definito una prigione, e di incamminarsi oltre quella porta. Solo che in questo caso, mancando la qualificazione, invece di “salire” si ha una vera e propria “discesa” verso stati inferiori dell’essere che non possono non condurre all’asservimento alle forze con cui si entra in contatto.
È noto che il tema della caduta si ritrova in tutte le tradizioni, cercare di analizzarne i vari simbolismi che vi concernono ci porterebbe troppo lontani dalle motivazioni che ci hanno spinto a scrivere queste note. Qui ci interessa solamente mettere in evidenza quegli aspetti che maggiormente possono interessare tutti quei gruppi che si muovono su una linea d’azione atta ad edificare una organica e duratura realtà tradizionale.
Chiunque abbia avuto modo di intraprendere un’attività che si sia discostata dalle normali consuetudini proprie alla politica spicciola, avrà avuto modo di constatare personalmente di come, ad iniziative siffatte, si avvicinino elementi “non adatti” spinti solo da un deleterio intellettualismo.
Costoro generalmente sono i più petulanti col loro integralismo, sempre pronti a citare le “sacre scritture” per suffragare delle certezze che alla lunga tanto “certe” non si sono poi dimostrate. E non si pensi che, nella maggior parte dei casi, essi siano spinti da malafede: tutt’altro! Solo che spesso si scambiano semplici acquisizioni intellettuali per chissà quali profonde trasmutazioni. Per cui è inevitabile che una volta che si sia rimossa questa patina superficiale e ci si trovi di fronte ad impegni che non permettono accomodamenti e raggiri, si rigetti tutto quanto e, se non ci si schiera addirittura su posizioni contrapposte, ci si “fissi” in atteggiamenti parziali.
Infatti è accaduto che alcuni si siano buttati a capofitto in attività da politicanti, slegate da qualsiasi collegamento superiore e organico riferimento strategico. Sono costoro quelli a cui pensava Evola quando diceva che «gli intrighi parlamentari hanno assorbito a poco a poco anche i migliori». Altri si sono rifugiati in attività personali “pulite”, rifuggendo come la peste ogni possibile compromissione politica; giustificando il tutto con l’esigenza di coprire e salvaguardare chissà quale attività svolta per la Tradizione!
Il fatto è che forse non si è mai dato il necessario peso alle parole che Evola ha dedicato a color che sono preda di facili entusiasmi e che poi, col sopraggiungere dei problemi “concreti” dell’esistenza, hanno mutato atteggiamento. In definitiva non si è mai voluta riconoscere quella che è la condizione di estrema fragilità interiore dell’uomo moderno, facendosi delle illusioni su elementi che a prima vista dovevano apparire per quello che erano.
Del resto, lo stesso Evola, giunto alla fine del suo viaggio, fingeva di sorprendersi nel constatare tutto ciò, quando affermava: «D’altra parte, si sono verificati anche casi di curiosi processi regressivi in persone che si sarebbe pensato fossero immunizzate da certi franamenti grazie a tutto ciò che di un superiore sapere era venuto a loro conoscenza, o anche soltanto alla loro preparazione colturale» (Il cammino del cinabro– pag. 215).
Alla luce di quanto finora detto, appare chiaro che è indispensabile che i dirigenti dei gruppi indirizzati alla costituzione di una operante realtà tradizionale – se non vogliono diventare una fabbrica di sbandati, o peggio di soldati per l’Avversario –, siano dotati della massima capacità di discernimento per quanto riguarda gli elementi che si avvicinano; e che il gruppo possegga una struttura ben gerarchizzata che permetta di collocare ognuno al suo posto, evitando di far sorgere pericolose illusioni, che potrebbero arrecare danni irreparabili sia al gruppo e sia, soprattutto, all'elemento stesso.
Vincenzo Monteforte